Nuovo brano da “Mio nipote nella Giungla” (Chiarelettere), lucida riflessione sull’Italia contemporanea di Oliviero Beha.
Una volta si diceva che la vera patria dell’individuo è la sua lingua madre. Adesso siamo un po’ tutti linguisticamente adottati, o da matrigne di necessità, anche tecnologica, come l’inglese o da spauracchi politici come il tedesco o dalle varianti economico-religiose come l’arabo o dalla demografia esplosiva come il cinese. Di certo l’italiano nella nostra parte di foresta è sempre più trascurato. A partire dal piacere di parlarlo bene. Questa parrebbe la faccia nobile o linguisticamente elitaria che distingueva quell’Italia uscita dall’ultima guerra oltre che disastrata economicamente anche in una condizione di analfabetismo che colpiva non solo il cervello, bensì pure il cuore. Ma non è più nemmeno così. Adesso, come in una parabola insieme geometrica e allegorica, di nuovo in Europa capeggiamo l’analfabetismo, questa volta però di ritorno. E mentre all’andata la spinta a imparare a leggere e scrivere, e quindi a parlare meglio, era una sorta di «vergogna contadina», intesa millenaristicamente, oggi parlare un italiano scadente, dalla sintassi zoppicante e dal vocabolario men che approssimativo, lungi dal penalizzare il parlante è diventato quasi un pregio, se non ancora un must.
Manca pochissimo (e forse il cucciolo d’uomo che muove queste pagine ci si troverà in mezzo), a uno status per il quale sia il non sapere le cose che il non saper esprimersi risultino una specie di norma. Una regola per essere accettati in società, insomma, una società che tra le sue caratteristiche fondanti non prevede il rispetto della parola.
Sembrano passati mille anni e non un lustro o poco più da quando si considerava il vocabolario personale alla stregua di un portafoglio, tanto più gonfio quanti più termini si conoscevano e si sapevano utilizzare. Adesso che, grazie alla tecnologia che sembra irreversibile, ci siamo inoltrati ben dentro la vegetazione dell’immagine o civiltà della giungla, nel folto dove l’uso del machete virtuale coinvolge la «visione» come mai in passato e lo sguardo si è trasformato in un’arma di offesa e di difesa, è tutto un fiorire di segni che della parola fanno un uso ormai secondario.
Un fratello di mia madre, uno zio semiologo agli albori di questa disciplina, quindi antenato dello sgambettante che pigola ma comincia anche ad articolare fonemi con una certa proprietà, Ferruccio Rossi-Landi – di cui Umberto Eco ha raccolto l’impegnativa eredità accademica rendendone più popolare l’innovazione semiotica e impregnandone la comunicazione –, mise insieme lingua e marxismo in un saggio che fece epoca negli anni Sessanta e Settanta, Il linguaggio come lavoro e come mercato. A parlarne ora con dei coetanei si rischia di essere scambiati per erme del Gianicolo, figuriamoci con le generazioni successive: marxismo? «Ma de che?» La lingua sottoposta alle stesse interpretazioni mercantili di qualunque altra merce? Ma quale lingua, se essa è fatta di parole ed è la parola l’oggetto più sbriciolato in circolazione?
Oggetto, poi… Forse soggetto, visto che noi parlanti in teoria potremmo identificarci nelle parole che diciamo in quanto esplicitazioni del nostro pensare per parole. Troppo difficile seguire questa stradina nella foresta? Appunto, ecco come ci stiamo riducendo. Ma voglio esemplificare davvero per tutti, così che si possa dissentire ma non accusarmi di incomprensibilità.
Nell’ultima primavera sono andate in onda su una tv a pagamento, Sky, l’emittente più «moderna» attualmente in attività e non a caso di origine anglofona, due serie televisive, una molto famosa l’altra molto reclamizzata. La prima, arrivata alla sua seconda stagione dopo il grande successo di ascolti di quella precedente (replicato con gli interessi), è Gomorra – la serie, romanzo televisivo nato sulla scorta dell’omonimo libro di un autore insieme misterioso e sospetto, Roberto Saviano, dall’amplificazione planetaria.
La seconda segnava il ritorno in tv dopo qualche anno di una specie di geniaccio della comicità e della satira, Corrado Guzzanti, e aveva nome Dov’è Mario?.
Gomorra è uno spaccato impressionante o anche solo realistico, efferato e violentissimo fin dagli sguardi degli attori, della guerra per bande contrapposte di Camorra, in eliminazione continua, per il controllo del territorio, a partire dal mercato della cocaina. La vicenda punta il compasso su Secondigliano per allargare poi in cerchi concentrici l’affresco della malavita non solo locale.
Nella sua serie invece l’istrione Guzzanti fa tutt’altro. Mette in scena ridicolizzandolo un caso macroscopico di sdoppiamento della personalità. Da una parte un supposto intellettuale di grande notorietà ma in crisi di ispirazione e identità, circondato da personaggi «veri» del giornalismo e della politica (Travaglio e Veltroni, ad esempio) che però escono dal video resi «pupi» dalla finzione realistica in una sacra rappresentazione da questo punto di vista straordinaria. Dall’altra un comico scurrile al cubo, star volgarissima da teatrini off, Hyde in travolgente crescita professionale quanto pare in declino il suo Jekyll quale autore letterario.
Non mi preme qui recensire queste due «cose tv», peraltro assai discutibili sia pure per ragioni remote tra loro, quanto piuttosto legarle a un unico, conturbante «buco nero», a un vuoto, a una morte non soltanto simbolica: la scomparsa della parola, quella che se casualmente pronunciata dal virgulto fa dire a me come a chiunque altro in una simile condizione parentale: «Toh, parla, ha detto “mamma”».
In Gomorra le parole sono trasformate in messaggi incomprensibili in un napoletano strettissimo di difficile accezione per gli stessi indigeni (a detta loro), sono flatus minacciosi o suadenti ma puri suoni, significanti dal significato assolutamente superfluo, che nulla aggiunge alla storia o alla psicologia dei personaggi. È palesemente una scelta precisa degli autori/sceneggiatori, perché se non lo fosse vorrebbe dire che è un’indicazione ancora più profonda – perché involontaria e/o inconsapevole – dell’avvenuta sparizione della parola come momento imprescindibile di «umanità» nella comunicazione. Nell’informazione. Nella trasmissione del sapere. Semplicemente il linguaggio è cambiato, siamo nel regno della «oralità gestuale».
In Dov’è Mario? si coglie lo stesso fenomeno legato alla scomparsa della parola come l’abbiamo intesa e valorizzata o svalorizzata fino all’altro ieri, ma in modo opposto e addirittura più subdolo e contundente. Il linguaggio paraintellettuale si sfarina da solo nel grottesco, attaccando le parole alla parete come mosche inutili e fastidiose, anch’esse all’incirca poco più che suoni, pur differenti dalle formule gutturali camorristiche, che non hanno bisogno di essere comprese. La piazza tv si riempie di parlanti in realtà non parlanti, salvo quando Guzzanti dice parolacce, letterali, simboliche o liberatorie. Quelle restano impresse, divertendo più o meno, ma fungendo da cartelli segnaletici della storia.
(…)
Ma se la parola parlata è svuotata e riportata in un certo modo a funzioni primordiali, al minimo necessario, per inoltrarsi nella foresta, è ancora più disarmata tra animali feroci e piante rigogliose la parola scritta. Basta prendere in mano i principali giornali italiani di fine millennio e gli attuali per verificare che cosa è successo in un quarto di secolo. Qui non si tratta neppure di quello che c’è dentro, della qualità, dell’indipendenza, dell’efficacia dell’informazione, ma di come si scrive.
Per timore di perdere lettori, che fa il paio in un quadro mediatico più generale con il timore di perdere telespettatori – resiste ancora la radio, ma nelle fasce più nobili e tradizionalmente «eufoniche», dedicate «a un certo tipo di pubblico» che anagraficamente sta andando verso l’estinzione –, l’ordine ormai tacito dei «padroni del vapore» è non «scrivete chiaro» (Montanelli si rivolta nella tomba) bensì «scrivete facile». E poiché la platea di lettori è sempre meno alfabetizzata e il vocabolario si restringe paurosamente, chi scrive deve tenerne conto ed esprimersi sempre più «banalmente» per non far faticare e quindi respingere chi legge.
(…) Niente di grave, se fosse soltanto una questione di stile. Tutto di grave se in realtà coinvolge il modo di pensare, di strutturare il ragionamento, di farlo arrivare a chi ti legge impegnandolo come è giusto alla stessa «fatica» di chi scrive su un piano se non sempre più alto almeno di conservazione dell’esistente. Così invece il pensiero rotola e dopo la morte della parola parlata o il suo uso sciatto, servile e impersonale in tv, quella scritta (spesso sub specie televisiva) si rende fossile, giace sulla pagina accanto alle altre. Il tutto in funzione della comunicazione, dea del nostro tempo, che comunica in apparenza sempre «meglio» ma in realtà sempre meno.
In questa flora selvaggia che fingiamo di avere sotto controllo non notate una lieve contraddizione nella radura a cielo aperto del paradosso? E mio nipote, povero marmocchietto, starebbe facendo sotto i miei occhi tutta questa fatica per il suo debutto come esploratore delle sillabe? Ma che cos’è, una gigantesca presa per i fondelli?
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