Scapoli contro ammogliati, villeggianti opposti agli indigeni, studenti di architettura in campo per storiche sfide ai futuri ingegneri, ultraquarantenni in competizione con figli e nipoti: insomma, calcio per puro divertimento e “chi perde paga la pizza ai vincitori”. Prima di scendere in campo muscoli massaggiati con olio di canfora che non evitano i crampi da surplus di acido lattico, respiro in affanno dopo due o tre scatti e piaghe ai piedi, in vecchie scarpe sacrificate per tirare calci al pallone pesante, un po’ sgonfio, chiuso con logori lacci di cuoio. Il fitto del campo pagato con un colletta (nemmeno un filo d’erba e strati spessi di polvere, docce fredde, il fischietto dell’arbitro in bocca al custode dell’impianto, legni delle porte sbilenchi, larghi buchi nelle reti e linee bianche del perimetro quasi invisibili). D’estate le trasferte vacanziere e ancora calcio. Porte improvvisate con esili tronchi di betulla conficcati nel terreno dell’alveo di un fiume a secco, uniti da una corda “rubata” a un barcone giù al porto, il terreno di gioco in pendenza, sabbia e pietre di varia dimensione, che se ci cadi sopra ti ci vogliono punti di sutura. Sul ponte, che scavalca il fiume prosciugato dalla siccità, il tifo spaccato in due di vacanzieri e stanziali, cori e sberleffi, sfottò ai perdenti nella settimana successiva al match. Molti in costume da bagno, pochi in calzoncini cuciti in casa da madri tuttofare e magliette a strisce, tinta unita, maniche arrotolate. Era il mondo del Torino di Bagicalupo, Gabetto, Mazzola, della nazionale di Pozzo. di un calcio appena sfiorato dalle esasperazioni del professionismo, di ingaggi diventati progressivamente stratosferici, di fanatismi di massa, invasioni straniere, della globalizzazione che tira dentro all’affare dello sport più popolare della Terra emiri, cinesi, nababbi Usa, imprese multinazionali. L’oblio del buon tempo antico va di pari passo con il tornado crescente di notizie, commenti, radio e telecronache, gossip, rubriche che martellano i tifosi, e non solo, mattina, sera e perfino notte, inverno, estate, giorni feriali e feste comandate i tifosi. Indirettamente il mondo intero. Solo qualche decennio fa se a una concorrente di quiz televisivi avessero chiesto “chi è Pelé, avrebbe risposto con un’alzata di spalle “ma chi è?” Ora anche le donne conoscono quasi tutto del calcio e di più, le faccende private, amori e separazioni dei “divi” del pallone. L’Italia è tutt’altro che esente dalla febbre del calcio sopra le righe. Si parla cinese a Milano, l’americano a Roma, lo slang italo-americano della Fiat-Chrisler a Torino e l’hollywoodiano cinematografico a Napoli. Prima hanno spadroneggiato petrolieri (Moratti), armatori (Achille Lauro). In Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna, imperano emirati arabi, multinazionali del farmaco, petrolieri, colossi dell’automobilismo, compagnie aeree e un gradino più giù industrie alimentari, dolciarie.
I calciofili se la ridono se un “estraneo” all’orgia del pallone solleva dubbi sulla rappresentatività di club che mandano in campo undici stranieri su undici, altri gridano allo scandalo per un giocatore valutato cento milioni di euro, per l’ingaggio di 22 milioni e mezzo (in cinque anni) ) riconosciuto in questi giorni all’ex scugnizzo Insigne. Calciatori a fine carriera, Pirlo è solo uno di tanti, investono le stagioni del pre pensionamento negli Stati Uniti, dove il soccer sta per approdare alla maturità, altri in piena attività emigrano in Cina dove si trasferiscono allenatori in cerca di gloria e di molti Renminbi Yuan. Avanza, per ora in prudente silenzio, l’ipotesi di un campionato sovranazionale aperto solo a un ristretto nucleo di società miliardarie, più televisivo che di partecipazione collettiva negli stadi. Il resto è folclore, quasi follia in forme di patologia da lettino dello psichiatra. Mister Zamparini, proprietario del Palermo dal 2002 dopo Il Pordenone e il Venezia entra a vele spiegate nel libro d’oro del Guinness con un primato ineguagliabile. Più produttivo di un ufficio di collocamento vanta l’assunzione di 56 allenatori. Peccato che ne abbia licenziati altrettanti, un paio perfino nel giorno successivo a una vittoria in campionato, alcuni assunti e mandati a casa più volte nella stessa stagione calcistica. In 15 anni di presidenza a Palermo il “mangia arbitri” ha cambiato allenatore una trentina di volte. Per ottenere risultati di prestigio? Proprio no, la squadra siciliana, al 24 di aprile dell’anno in corso, è penultima in classifica. Dopo 33 partite ha totalizzato la miseria di 16 punti, ha subito 73 gol, ne ha segnati solo 27. Ieri l’ultima batosta, il 6 a 2 subito dalla Lazio. Si possono leggere in contrapposizione i fenomeni del Sassuolo, cittadina di dimensioni paragonabili a un rione medio di grandi città, rivelazione del campionato e morigerato club in tema di acquisti e ingaggi, o dell’Atalanta, squadra giovane che Gasperini ha reso competitiva ad ogni livello. Intorno al calcio esaltato, coccolato, strillato, che satura ogni spazio dell’informazione, ruotano corollari ai limiti della legalità e oltre: partite truccate, arbitraggi “condizionati” dai club dominanti, il mondo eticamente discusso delle scommesse, bilanci truccati. Qualcuno, depositario del sentimento oramai raro dell’ingenuità, vagheggia un mondo improvvisamente rinsavito, sogna un prodigioso gioco di prestigio che d’incanto cancelli il calcio malato e lo ridimensioni a gioco da pantaloni cuciti dalle mamme e palloni bitorzoluti di cuoio.
(Nella foto Zamparini con uno dei tanti allenatori licenziati)
Scopri di più da La voce Delle Voci
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.