25 anni da Mani Pulite – La fatale attrazione di Hammamet

“…nu latitante è na foglia int’o viento / nun pò allucca’ nun pò dì so’ innocente / telefono a casa pe’ dì sulamente / rimane è natale, vulesse turnà / nu latitante nun tene ’a speranza, nun pò turna…”

scateniSono struggenti (ma solo in ambiente malavitoso) i versi di questa canzone del genere neomelodico dedicato al povero recluso nella cella di Poggioreale. E’ la vigilia di Natale e non può tornare al tepore della casa, al simbolismo dell’albero addobbato. “Nu latitante” ha vissuto momenti di grande successo discografico e radiofonico e avrà certamente toccato le corde sensibili di Matteo Messina Denaro, boss di Cosa Nostra, latitante dal 1993, il più ricercato del mondo. Ed è molto probabile che la rapida diffusione della canzone pro detenuti abbia raggiunto la sponda africana dell’Italia dove Craxi scelse di stabilire la sua latitanza, che il leader del Psi pluricondannato l’abbia ascoltata ad Hammamet, sintonizzato per caso sulle frequenze di radio napoletane. Commozione assicurata.

Lo choc di “Mani Pulite” scosse le coscienze degli italiani, terrorizzò gli affaristi truffatori, l’ampio segmento di politica corrotta e collusa con il malaffare che lucrava con l’illecito, fino al fatidico ’92 galvanizzata da certezze fondate di impunità. Il titolo “Mani Pulite” si deve alla profetica intuizione di Giorgio Amendola che in cuor suo deve aver auspicato che ne stessero fuori le istituzioni al governo del Paese: politica, sindacati governi locali, il mondo dell’imprenditoria, ma soprattutto il suo PCI. Campasse ancora, il dirigente comunista sceglierebbe l’ascetismo in un eremo non raggiunto dall’informazione e finirebbe i suoi giorni, in fase ultima di depressione, con la pietas del suicidio svizzero assistito. Eviterebbe il colpo al cuore della fase due di Tangentopoli, più estesa, dannosa per il Paese e includente tutti, nessuno escluso. Militano nelle truppe della corruzione e dell’illecito ad ampio raggio tutti i partiti, da destra a sinistra, uomini del sindacato non ne sono esenti, il mondo dell’imprenditoria è largamente coinvolto, ci sono dentro perfino alti prelati del clero. Un differenziale giudiziario distingue però la prima dalla seconda tangentopoli e per convincersene occorrerebbe la scienza di un accorsato uomo della statistica, in grado di convertire in numeri, territorio comprensibile a tutti, la cronaca dei processi anti corruzione conclusi con comodi patteggiamenti, prescrizioni e generose assoluzioni. I corrotti del ’92 finivano in carcere o latitanti, in accoglienti Paesi d’oltremare. Colti con le mani nel sacco, nell’atto di intascare tangenti, sono finiti in carcere notabili della politica in auge fino al mandato d’arresto del pool del Pm d’assalto, il Di Pietro implacabile giustiziere. Le conclusioni processuali di condanna, tradotte in manette, svelarono la dimensione di un bubbone fetido, con ramificazioni estese al pianeta invasivo della malavita mafiosa. Spetta agli storici l’onere di ricostruire le tappe del percorso che portò alla rimozione di tanta spazzatura, mai avvenuta alle radici, perché protetta da pigrizia investigativa e complesse complicità. Forse la chiave per risolvere l’impegnativo rebus di una fase due della corruzione, di gran lunga peggiore della prima, è iscritta nell’incredibile evento che a spese della collettività ha portato uomini politici del nostro tempo ad Hammamet con in mano un fascio di fiori da poggiare sulla tomba di Craxi. Che dire di un democratico eletto inquilino di Palazzo Marino, al secolo mister Sala, promotore dell’idea di intitolare un luogo di Milano a Craxi. Per chi non avesse a portata di memoria la vicenda del segretario socialista è di aiuto ricordare che fu condannato in via definitiva a 5 anni e 6 mesi di reclusione per la vicenda Eni-Sai e a 4 anni per l’inchiesta sulla metropolitana di Milano, che per non scontare le condanne fuggì in Tunisia. C’è di più. In parlamento, Craxi benedisse il sistema delle mazzette, delle tangenti. Qualunque collettore di tangente, di qualunque partito, sarebbe uno spergiuro se negasse di esservi implicato. In memoria del latitate leader socialista, è da incorniciare e proporre alle giovani generazioni la frase pronunciata da Berlusconi nella circostanza: “Onorato ogni volta che il mio nome viene accostato a quello di Craxi”. Bisogna capirlo, la sua fortuna di imprenditore è diretta emanazione di un sodalizio ben assortito con il segretario socialista che smascherato dai magistrati del pool, all’uscita da un albergo romano fu bombardato di monetine al grida “Vuoi anche queste?”.

A diciassette anni dalla morte, Alfano, il nostro neo ministro degli Esteri volato in Tunisia insieme alla vedova Anna e ai figli Stefania e Bob, ha deposto fiori sulla tomba di Craxi. Nessuna sorpresa. Al tempo dei funerali il presidente del consiglio D’Alema organizzò una spedizione governativa di rappresentanza e delegò a rappresentarlo il ministro Lamberto Dini e Marco Minniti del Pd, l’attuale ministro dell’Interno. La risposta di Berlusconi, in perfetta par condicio, fu l’invio di una delegazione degli ex socialisti Frattini, Sacconi, Brunetta. Di più. Giorgio Napolitano, nella qualità di Presidente della Repubblica, nel decennale della morte inviò un messaggio ovviamente apprezzato dal figlio Bobo con cenni al revisionismo della storia e alla “sapiente politica dell’epoca di cui certamente Bettino Craxi fu protagonista”. Al coro di plausi per la trasferta tunisina di Alfano si sono associati con entusiasmo socialista (ex) Maurizio Sacconi (“nel segno della verità”) e Cicchitto (“visita molto importante”). C’è enfasi da riconoscenza nell’esternazione di Berlusconi alla figlia Stefania. Definisce colpo di Stato la privazione del ruolo politico di Craxi, della possibilità di vivere da uomo libero nel suo Paese….che scelse la strada dell’esilio (della latitanza, ndr) pur di non venire a patti con questo “apparato politico, mediatico, giudiziario che uccide la libertà e la democrazia”. Ha scritto, non smentito, il Fatto Quotidiano: “Resta il mistero di come mai Berlusconi, tramite il conto estero All Iberian, abbia versato sui conti di Craxi ventuno miliardi di lire come ha stabilito la sentenza di condanna in primo grado, prescritta durante i processi milanesi”. E’ così difficile collocare la tessera della “tangentopoli bis” nel puzzle dell’Italia malata di corruzione? Chiuso il capitolo Di Pietro, corrotti e corruttori hanno riaperto i tentacoli della piovra illegalità su appalti di opere pubbliche, banche, grandi Enti statali e in termini minimali su illeciti della quotidianità, del mancato rispetto delle regole, sulla fine ingloriosa dell’etica. Il contagio di ruberie, truffe e mazzettopoli ha infettato migliaia di eletti a rappresentare i cittadini nel ruolo di amministratori degli enti locali, la camorra ha invaso senza trovare resistenze apprezzabili ogni ambito dell’economia. La genesi di questa seconda era che come i fiumi in piena allaga i campi fertili della residua cultura dell’onestà, ha un comune denominatore nell’auto-assoluzione di corrotti e corruttori che la riabilitazione di Craxi incoraggia. Il condannato leader socialista chiese ai tesorieri dei partiti di giurare in Parlamento di non essere destinatari di finanziamenti illeciti. Sembra che nessuno osò raccogliere il guanto della sfida, già allora nella convinzione che il sistema “Tangentopoli” avrebbe goduto di lunga vita. E nessuno lo raccoglierebbe in questa stagione dei corrotti che ogni giorno contribuisce a ponderosi titoli nelle pagine della cronaca e della politica. Il vortice della disonestà è cresciuto a dismisura e inghiottisce di tutto: i politici (complici o estranei   i rispettivi partiti), manager al vertice di banche e grandi imprese, alti gradi delle forze armate, amministratori di enti pubblici, faccendieri. La via di fuga dai rischi di pagare, ha fatto tesoro del caso che coinvolse Mario Chiesa, primo a far le spese dei magistrati di Mani Pulite. Ora punta alla lentezza dei processi, che finiscono in gran parte con la prescrizione dei reati, nel garantismo a tutti i costi a favore degli uomini colti a rubare per se e per i partiti, nell’omertà bi partisan che conta sulla memoria corta dell’opinione pubblica, investita ogni giorno di nuovi casi della Tangentopoli bis.


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