Ricordate le sentenze che assolsero Mario Mori e Antonio Di Pietro dai pesantissimi addebiti contestati, il primo per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina e il secondo per le tante anomalie nelle sue inchieste milanesi? Comportamenti moralmente, deontologicamente, professionalmente gravi. Ma non penalmente rilevanti.
Così ora succede per il direttore del Mattino Alessandro Barbano e il cronista del quotidiano partenopeo Antonio Manzo per la vicenda della supercontestata intervista al giudice Antonio Esposito, che aveva firmato la celebre prima condanna definitiva a carico di Silvio Berlusconi, costatagli i servizi sociali. Comportamenti censurabili sotto svariati profili, deontologici, professionali e simili: ma non tali da portare ad una condanna civile, con relativo risarcimento del danno.
Una sentenza – quella appena pronunciata dal presidente della quarta sezione civile del tribunale di Napoli, Pietro Lupi – che fa a pugni con se stessa, si contraddice in più punti e dopo aver portato avanti un certo ragionamento, nel rush finale opera un testacoda. Trenta pagine, insomma, zeppe di autogol.
Esulta Barbano e dipingono i suoi, impegnati ad autocelebrarsi: “i giudici del tribunale di Napoli non hanno dubbi: il testo è vero, pienamente rispondente al contenuto del colloquio registrato da Manzo”. Le doglianze di Esposito? “Oggi ritenute prive di fondamento”. La domanda inesistente sul ‘non poteva non sapere’ riferito a Berlusconi e infilata in modo galeotto nel testo dell’intervista? “Una aggiunta – tagliano corto in via Chiatamone – che non era presente nella conversazione registrata ma che non ha stravolto il contenuto dell’articolo, né il valore della notizia pubblicata dal Mattino”.
Insomma, lo scippo con destrezza non è più reato.
A LEZIONE DI GIORNALISMO
Ma vediamo, in rapida carrellata, alcuni passaggi salienti della sentenza Lupi.
Viene scritto a pagina 18: “può affermarsi che il 6 agosto 2013 fu pubblicato dal quotidiano il Mattino un articolo, contenente un’intervista al dott. Esposito, il cui testo era difforme da quello sottoposto alla rilettura dell’intervistato, in violazione di un impegno che era stato espressamente assunto dal giornalista nel corso dell’intervista. Testo diverso riportato in citazione e nelle memorie unicamente per evidenziare la violazione di quei doveri di obiettività, lealtà e verità consacrati nella legge sulla stampa e sulla disciplina dell’attività giornalistica”.
La risposta, relativa al famoso ‘non poteva non sapere’, “non era inclusa in nessuna della due bozze che risultano sottoposte all’intervistato. Inoltre – scrive il presidente della quarta sezione – è stata collocata dopo la domanda mai posta, conferendo all’articolo, rispetto alle due bozze inviate all’intervistato, una valenza del tutto diversa”. Attenzione: siamo ancora al Lupi 1.
Che così continua, tanto per chiarire il concetto: “anche il titolo viola la regola deontologica riportata, perchè la frase riportata tra virgolette e, quindi, attribuita all’intervistato, ‘Berlusconi condannato perchè sapeva, non perchè non poteva non sapere’, non era contenuta nel testo della bozza approvato dal dottor Esposito né il medesimo l’aveva così esattamente pronunciata nel corso dell’intervista. Si tratta quindi di aggiunte alla bozza operate dal giornalista Manzo”.
Tutto ciò, a parere di Lupi, conduce ad “una violazione del principio di lealtà e buona fede nello svolgimento dell’attività giornalistica”.
Ma ecco che comincia l’inversione, azionata da un semplice ‘tuttavia’. Così scrive la toga partenopea: “questa violazione, tuttavia, mentre può autonomamente rilevare in sede disciplinare, assurge a fonte di responsabilità extra contrattuale solo e nei limiti in cui caratterizza, anche sotto il profilo dell’elemento psicologico, la condotta del giornalista che procede alla pubblicazione di una notizia diffamatoria”. Siamo alle prime, già dense nebbie però colorate di effetti psicologici…
Ma ecco accendersi una lampadina, che illumina sugli scivolosi percorsi non solo giurisprudenziali, ma soprattutto logici, di tale impervio ragionamento: si chiama ‘Privacy’, la magica paroletta, il passepartout per tutti gli accessi. Scrive la toga (siamo al Lupi 2): “la violazione del codice deontologico è fonte di diretta responsabilità civile nei confronti dei terzi solo nel caso dell’illecito o non corretto trattamento dei dati personali di questi ultimi raccolti nel corso dell’attività giornalistica e ciò per effetto di quanto dispongono gli articoli 11,12,15 e 137 del Codice della Privacy”.
E’ TUTTO QUESTIONE DI PRIVACY
Tradotto: se Esposito avesse invocato la violazione della sua Privacy avrebbe avuto ragione! Lo sostiene a chiare lettere il togato napoletano: “tuttavia il dottor Esposito ha finalizzato la sua azione esclusivamente all’accertamento del contenuto falso e diffamatorio dell’articolo e non ha, invece, proposto domande volte alla tutela dei propri dati personali – le dichiarazioni rilasciate nell’intervista registrata – deducendo la non correttezza del loro trattamento”. Più in dettaglio: Esposito “ha chiesto di dichiarare il carattere falso e diffamatorio del contenuto dell’articolo incentrando tutte le sue domande su quest’accertamento e non sui danni derivati sic et simpliciter dalla mancata pubblicazione della bozza di un articolo dal medesimo approvata e, quindi, unicamente da un non corretto trattamento delle sue dichiarazioni”. Boh.
Passiamo al diritto di cronaca e al suo disvelamento per i comuni mortali, per i lettori ormai mortificati da un’informazione che più cloroformizzata e taroccata non si può.
Ci conduce per mano il Lupi pensiero: “al fine di accertare gli estremi del reato di diffamazione da parte del giornalista e del direttore del quotidiano, occorre spostare l’attenzione sul corretto esercizio o meno del diritto di cronaca. E’ noto che sono tre le condizioni per esercitare il diritto di cronaca anche quando ciò leda la reputazione altrui: la verità del fatto riferito, l’interesse pubblico a conoscerlo, la correttezza nell’esposizione. Nel caso in esame il dott. Esposito contesta unicamente l’esistenza della condizione della verità”.
Siamo al Lupi 3, un autentico Diogene alla ricerca della Verità. E sentiamo il suo Verbo: “occorre pertanto soffermarsi sulla condizione della verità oggettiva e accertare se il dott. Esposito abbia mai effettivamente dichiarato nel corso dell’intervista che l’on. Berlusconi era stato condannato ‘perchè sapeva, non perchè non poteva non sapere’. Si deve premettere che la verità del fatto che l’intervistato abbia effettivamente formulato le espressioni riportate è da escludersi quando, pur essendo vere le affermazioni riferite, ne siano dolosamente o colposamente taciute altre, idonee ad alterarne sostanzialmente il significato, ovvero quando, mediante accostamenti suggestivi di singole affermazioni dell’intervistato capziosamente scelte, l’intervista venga a risultare presentata in termini oggettivamente idonei a creare nel lettore o nell’ascoltatore una falsa rappresentazione della realtà dalla medesima emergente”. Tortuoso, comunque proseguiamo nel cammino.
Ecco che, improvvisa, si aziona un’altra luce, assai utile per il cammino di Diogene-Lupi. Ad accendere l’interruttore Barbano e Manzo con la loro memoria difensiva. Spiega il presidente della quarta sezione: “i convenuti sostengono che sia il titolo sia l’articolo sono frutto di una rielaborazione giornalistica, cd. editing, che non avrebbe minato la verità oggettiva della notizia, cioè della dichiarazione dell’alto magistrato in ordine alle ragioni della condanna dell’on. Berlusconi”. E illumina: “è indubbio che il testo di un’intervista, specie così lunga come quella in esame (35 minuti), debba subire adattamenti per poter essere pubblicata su un quotidiano. Tuttavia anche la sintesi, in cui poi si sostanzia il mestiere del giornalista, deve sempre assicurare, pur in termini riassuntivi, la corretta rappresentazione del pensiero dell’intervistato su ogni specifico argomento sottopostogli così come emerso nel corso dell’intero colloquio”. Elementare, Watson.
EDITING! ECCO LO SCOOP
Stavolta la paroletta magica è ‘editing’, suggerita da Barbano & Manzo al giudice, ansioso di giungere alla Verità abbeverandosi alle sorgenti limpide dell’Informazione (proprio il tandem Barbano-Manzo! sic). Sa anche un giovane cronista al primo articolo di che pasta sia fatto l’editing: un lavoro certosino di rielaborazione testuale (immagini comprese) per dar vita ad un’opera da pubblicare, sia esso un romanzo che un saggio, oppure una guida turistica. Non esiste ‘editing’ per la messa in pagina di un articolo: sa infatti anche lo stesso cronista alla sua prima intervista che quanto raccoglie in un’ora o più di conversazione va poi ‘tagliato’, evidentemente sfrondato, rispettando pensiero e parole dell’intervistato nonchè mettendo in luce i versanti di pubblico interesse. Come conseguenza logica, titolo, occhiello (di cui dottamente discetta Lupi) e sommario diventano funzionali al senso stesso dell’intervista (o dell’articolo). L’editing – diceva un’altra toga – non ci azzecca.
Eppure eccolo servito su un piatto d’argento, vero assist (a se stesso) per un imprevedibile colpo di spugna griffato Lupi 3. “Pur se non sono state queste le parole utilizzate dall’attore (Esposito, ndr), il titolo utilizzato costituisce un’efficace sintesi giornalistica del suo pensiero”, spiega il magistrato che ora si ri-fa astuto psicologo. E diagnostica: “l’operazione di cd. editing effettuata nell’articolo può ritenersi sostanzialmente fedele al senso delle dichiarazioni del dott. Esposito”.
Quindi la pezza a colori inserita con maestria: “pertanto anche l’inserimento della domanda mai posta (‘Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?’) trova una giustificazione sul piano dell’editing (chiamato ora confidenzialmente, senza più bisogno del burocratico cd., ndr) e della resa giornalistica dell’intervista, perchè fornisce al lettore un riferimento ad una risposta che, pur in assenza di un’espressa domanda, il dott. Esposito aveva incautamente fornito al giornalista”.
Cui al massimo va un buffetto, dispensato dalla toga partenopea: “la forma espressiva utilizzata dal giornale può ritenersi ardita e spregiudicata, considerati anche i rapporti che vi erano tra il cronista e l’intervistato”. Poi subito il plauso: “ma è sostanzialmente corrispondente al contenuto dell’intervista”.
L’OPPOSTA SENTENZA DEL CSM
Diametralmente opposto il parere della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, che mesi fa ha dato ampiamente ragione ad Esposito e censurato in modo categorico il comportamento del Mattino nonchè l’intervista taroccata.
Ecco cosa in sostanza sottolineano le toghe del Csm. “Le doglianze del dr. Esposito erano pienamente condivisibili” , “non vi era dubbio che le lamentate differenze vi erano”, “la manipolazione era pacifica”, quanto dichiarato da Esposito “non andava oltre la sua generica prospettazione e non si tradusse in una inusuale anticipazione della motivazione”.
E ancora, in modo più analitico, si parla di “un rimaneggiamento che appariva chiaramente orientato a far risultare che aveva detto cose che in realtà non aveva voluto dire. Il giornalista, in particolare, non aveva mai formulato la domanda ‘non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?’. E non si trattava di una integrazione neutra, ma dell’espediente che aveva trasformato il senso del passaggio successivo, rendendo visibilmente aderente al caso trattato quella che era una considerazione di carattere generale”.
In modo ancora più esplicito, commenta la sezione disciplinare del Csm. “Non c’era dubbio che le lamentate differenze c’erano. La manipolazione appare essere stata attuata con grande mestiere, non solo introducendo la domanda sopra riportata, assente nella conversazione, ma espungendo anche dal testo due passaggi che chiarivano inequivocabilmente, in primo luogo che il dott. Esposito non voleva fornire dettagli che potessero anche solo avvicinare il discorso al cuore della decisione; e poi che secondo il dott. Esposito la famosa questione del non poter non sapere andava vista caso per caso, sulla base di una valutazione in fatto, dal che sarebbe emerso con ulteriore chiarezza che il suo era un discorso generale e non specificamente diretto a illustrare l’iter logico argomentativo che il suo collegio avrebbe esposto nel provvedimento, che ancora attendeva di essere motivato”.
Quindi la sentenza del Consiglio fa rilevare che “l’alterazione emerge in tutta la sua gravità se si considera che il testo dell’intervista era stato trasmesso via fax al dr. Esposito per una verifica preliminare e lo stesso non conteneva la domanda relativa al motivo della condanna”.
Ma tutto questo Lupi non lo sa. E’ forse il caso di inviargli un ‘editing’ di quella sentenza del Csm…
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