Depistaggio. L’impossibilità, fino ad oggi, di arrivare a una verità per la tragica morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assicurando alla galera esecutori e soprattutto mandanti di quella esecuzione, è dovuta a precisi depistaggi di Stato (italiano, in combutta con quello somalo). Depistaggi che hanno teso unicamente a coprire i reali responsabili, sbattendo invece in prima pagina e in galera un innocente, Omar Assan Hashi, che non c’entrava niente e che soltanto adesso, dopo aver scontato ben sedici anni di ingiusta detenzione, a 42 anni è tornato libero.
Le motivazioni della sentenza pronunciata il 19 ottobre dalla Corte d’Appello di Perugia e ora note rappresentano un pesantissimo j’accuse sia verso le tante inchieste fin qui portate avanti senza cavar un ragno dal buco (anzi, insabbiando regolarmente) che verso apparati dello Stato che hanno prima inventato e poi coperto il teste taroccato, Ahmed Alì Rage, alias Gelle, sulla cui unica versione s’è basata la condanna di Hashi: teste-base che peraltro non ha mai verbalizzato davanti ad una corte. Ai confini della realtà. Così come lo è l’assordante silenzio dei grossi media nazionali, tutti embedded (tranne un articolo de il Fatto e un altro del Secolo XIX di Genova) perchè la tragica fine di Ilaria e Miran sia per sempre dimenticata. E i responsabili continuino ad agire indisturbati.
DOPO 23 ANNI IL PRIMO SPIRAGLIO
Commenta Luciana Riccardi, la madre di Ilaria. “Finalmente un primo spiraglio dopo ventitrè anni di sofferenza per una verità calpestata e una giustizia negata. E’ incredibile come solo ora si arrivi al proscioglimento di un imputato del tutto estraneo all’omicidio di Ilaria e Miran, come noi abbiamo sempre sostenuto. Quindi adesso si ricomincia da capo. Ne ho viste di tutti i colori, con mio marito che da sette anni non c’è più ho lottato allo spasimo per la verità, dalle autorità solo parole ma nessun fatto concreto, sei magistrati che si sono alternati e l’unico che aveva subito capito che c’era sotto qualcosa di grosso, Giuseppe Pititto, è stato estromesso dall’inchiesta”.
Ed è stata la madre di Ilaria, mesi fa, a puntare i riflettori su uno dei personaggi chiave che ora emerge con chiarezza dalla pagine della sentenza di Perugia, l’ambasciatore italiano a Mogadiscio Giuseppe Cassini. Queste le sue parole subito dopo la sentenza del 19 ottobre che assolve Hashi: “sono furibonda per quello che hanno fatto e disfatto per coprire gli assassini e i mandanti del duplice omicidio. I giudici non hanno ascoltato i veri protagonisti di questo lungo depistaggio”. E poi: “dai verbali delle udienze emerge che l’ambasciatore Giuseppe Cassini ha portato in Italia il testimone Gelle, il quale accusa Hashi di aver sparato a Ilaria e Miran. Ma non c’è mai stato un giudice o una corte che lo abbiano interrogato. Hanno condannato un giovane sulla base di una sola dichiarazione”. Tenace nella ricerca della verità, in questi ventitrè anni, l’avvocato della famiglia Alpi, Domenico D’Amati, una vita in difesa dei principi di legalità.
Vediamo, a questo punto, cosa scrivono i giudici della corte d’Appello di Perugia, presidente del collegio Giancarlo Massei, giudici a latere Andrea Battistacci (relatore della sentenza) e Franco Venarucci.
In primo luogo, viene sottolineato che già anni fa, nel 2008, Hashi aveva presentato un’istanza di revisione del processo, basato sulla totale inattendibilità dei due testi, quello ‘oculare’, Gelle, e l’autista dei due giornalisti, Sid Abdi, accusati di calunnia nei confronti di Hashi dai suoi legali, Douglas Duale, che l’ha seguito fin dalle prime battute, e Natale Caputo. “Gli atti – scrivono le toghe perugine – erano stati trasmessi alla procura di Roma che aveva dato corso ad un’accidentata attività processuale a carico dei due testi: dopo alterne vicende, e dopo una iniziale richiesta di archiviazione non accolta, si era alla fine svolto un giudizio dibattimentale all’esito del quale Ahmed Alì Rege era stato assolto dal reato di calunnia con sentenza del 9 ottobre 2012, mentre il coimputato Sid Abdi era nel frattempo deceduto”.
IL TESTE CHIAVE SPARITO? LO TROVA CHI L’HA VISTO
Ma ecco che, man mano, arrivano “nuove prove”, che costituiranno la base della seconda richiesta di revisione avanzata dai legali di Hashi. In primo luogo l’intervista al “teste oculare”, Gelle, realizzata da Chiara Cazzaniga per Chi l’ha visto e andata in onda il 18 febbraio 2015. Mai ascoltato nel corso del processo, Gelle, perchè “sparito” e soprattutto mai cercato dagli inquirenti, che ne hanno anzi favorito il breve soggiorno in Italia e poi la fuga in Germania prima e in Inghilterra poi.
E infatti Chiara Gazzaniga non ha grandi difficoltà – tramite la comunità somala romana – a trovarlo a Birmingham e a farsi rilasciare le dichiarazioni-bomba, che così sintetizzano i giudici della corte d’Appello di Perugia: “Rage risultava risiedere da anni in Inghilterra e non era mai stato escusso quale testimone nel corso del dibattimento a carico di Hashi. Rage aveva riferito come, all’epoca dei fatti, non fosse stato presente nel luogo dell’attentato ma come si trovasse presso l’Ambasciata americana a Mogadiscio e come nulla sapesse dell’omicidio. Dopo alcuni anni dal fatto gli era stato chiesto di indicare nell’Hashi uno degli autori dell’omicidio in quanto l’Italia aveva interesse a chiudere in fretta la vicenda e come in cambio di tale ‘bugia’ gli fosse stato promesso denaro e protezione”. Più chiari di così, si muore…
Secondo. Viene sottolineato che diversi soggetti, mai sentiti nel corso del dibattimento, e invece ascoltati dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Alpi, “avevano negato che tra gli appartenenti al commando che aveva perpetrato il duplice omicidio facesse parte Hashi, soggetto che conoscevano personalmente”. E precisano: “Uno di tali soggetti a nome Ali Hassan Ossobow si era addirittura riconosciuto nell’immagine del filmato relativo alla scena dell’omicidio ripresa da un operatore di una televisione svizzera presente sul posto, immagine che era stata attribuita al teste Rage e che era stata utilizzata per effettuare la perizia antropometrica disposta dalla corte d’Assise di Appello di Roma che aveva costituito ulteriore elemento di riscontro della ‘presenza’ del teste sul luogo del duplice omicidio”.
Altri nuovi elementi emergono dalle dichiarazioni di due giornalisti, Massimo Alberizzi, all’epoca inviato del Corriere della Sera a Mogadiscio, e il corrispondente dalla Somalia per la Bbc, Aden Mohamed Sabrie. Autore di numerose inchieste su lavori & appalti gestiti dal Fai e della cooperazione italiana (suo un reportage sugli affari targati Techint del gruppo Rocca), Alberizzi “aveva smentito quanto riferito in merito all’attentato dall’autista della giornalista, Abdi. Costui, infatti, interrogato dall’Alberizzi dopo l’attentato, aveva affermato di non ricordare nulla dell’episodio e di non sapere chi fosse Hashi Omar Hassan”.
Nell’istanza di revisione dei legali di Hashi, poi, viene ricostruita la vicenda di una telefonata tra Sabrie “e un soggetto qualificatosi come ‘Gelle’ di cui il giornalista aveva parlato nella trasmissione ‘Veleni di Stato’, andata in onda il 21 marzo 2004. Telefonata di contenuto identico a quanto Rage aveva riferito alla giornalista Chiara Cazzaniga, nel corso della quale il presunto ‘teste oculare’ aveva negato di essere stato presente sul luogo dell’omicidio”. Altra testimonianza da novanta, mai prima presa in alcuna considerazione. E altra picconata al folle impianto accusatorio della sentenza che venne pronunciata in Appello e confermata in Cassazione.
I DIRETTORI DELLA TRAGICA SCENEGGIATA
Ma eccoci allo snodo fondamentale. Chi ha orchestrato la verità taroccata di Gelle? Chi l’ha ispirato? Quale regia? Ecco che, dalle pagine di Perugia viene fuori, a tutto tondo, la sagoma dell’ambasciatore tricolore. Esplicite le parole della sentenza e complessa ma chiara la ricostruzione di quel tragico scenario. “Emerge così la figura dell’ambasciatore Cassini, il quale si era recato in Somalia con l’incarico di tentare una riappacificazione tra i clan somali ed aveva ricevuto dal vicepresidente del consiglio dei ministri anche la raccomandazione di acquisire informazioni circa i responsabili del duplice omicidio. Nell’ambito di tale attività, a luglio del 1997 un funzionario dell’Unione Europea a Mogadiscio di nome Ahmed ‘Washington‘, somalo con passaporto tedesco, soggetto da lui ritenuto assolutamente affidabile, lo aveva messo in contatto con un altro individuo, di nome Andisaiem Shijno, persona altrettanto affidabile, che conosceva un teste oculare che si era trovato avanti all’hotel Hamana al momento del fatto, il cui soprannome era ‘Gelle’. (…)Nell’ottobre 1997 Gelle era giunto in Italia ed era stato sentito dalla Digos di Roma il giorno 10”.
In un’inchiesta del 30 ottobre scorso (vedi link in basso), la Voce ha dettagliato alcuni particolari sulle connection americane nel giallo Alpi: e in particolare su alcuni agenti della Cia, come Ibrahim Hussein, alias Malil, e il suo capo Mike Shankin: i due ‘mariti’ (morto in circostanze misteriose il primo, addirittura espulso dalla stessa Cia il secondo) della nostra Stefania Pace, dal 1988 a Mogadiscio con una sua Ong, CISP, che stranamente si era occupata dall’ultimo trasporto di Ilaria e Miran, sempre scortati dal servizio ufficiale Unisom. “La cordata di compagni di merende scrive la Voce – non è ancora finita. C’è anche John Spinelli, al secolo Leopard: Shankin e Spinelli saranno poi coinvolti anche nell’affare Abu Omar. Nel team figura un altro uomo targato Cia, e ben nascosto dietro un nome di battaglia, Hamed Washington. Ed è proprio l’amico di Shankin e Spinelli, Washington, a portare su un piatto d’argento all’ambasciatore Cassini il superteste taroccato, Gelle”. Un bell’ambiente di affaristi, spioni & 007.
Riferendosi anche alla relazione finale della Commissione d’inchiesta, vengono ora sottolineate dai giudici di Perugia “le anomale modalità attraverso le quali l’ambasciatore Cassini aveva rintracciato Gelle. (…) Il Cassini aveva ritenuto le affermazioni di Gelle del tutto attendibili avendo totale fiducia in Ahmed Washington, tramite il quale lo aveva rintracciato, tanto che aveva riferito le modalità della sua individuazione al procuratore della repubblica di Roma Vecchione, specificando come si trattasse dell’autista del giornalista dell’Ansa Remigio Benni, circostanza che aveva probabilmente appreso dallo stesso Gelle e che si era dimostrata del tutto infondata”. Da rammentare che fu proprio il procuratore capo Salvatore Vecchione a scippare l’inchiesta a Pititto, genesi di tutte le non inchieste successive.
Torniamo al collaboratore somalo della Bbc, Sabrie, che racconta di essere stato “contattato per telefono da un soggetto che si era qualificato come Gelle il quale gli aveva manifestato la propria sorpresa per la condanna di Hashi basata principalmente sulle sue dichiarazioni che non aveva mai riprodotto in dibattimento. L’interlocutore telefonico affermava inoltre come avesse formulato una falsa accusa nei confronti di Hashi, in ciò stimolato dall’ambasciatore Cassini che lo aveva allettato con la prospettiva di un ingresso in Italia in cambio di un ‘aiuto’ per chiudere la vicenda relativa al duplice omicidio. Tanto che, in cambio delle sue dichiarazioni, aveva ottenuto un ‘visto’ su un passaporto falso che si era procurato. Specificava il suo interlocutore come proprio per evitare di dover ripetere le false accuse davanti ai giudici si era reso irreperibile, convinto che Hashi sarebbe stato assolto”.
Spunta anche un interrogatorio di polizia in cui l’onnipresente Ali Rage Gelle parla di come lo stesso “Ahmed Washington era interessato alla sua storia ed era perfettamente a conoscenza della falsità della sua ricostruzione. (…) In altra circostanza sembra dare conto di una effettiva consapevolezza anche dell’ambasciatore Cassini in merito alla falsità della sua ricostruzione. (…) Soggetto che ben potrebbe essere stato coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata di cui non era in alcun modo consapevole, essendo all’epoca interessato solo a lasciare la Somalia. Attività di depistaggio che ben possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate ricerche”.
AUTISTI DI POLIZIA PER IL TESTE TAROCCATO
Non solo il già incredibile “volo” in compagnia dell’ambasciatore Cassini, che si mostra quanto mai ospitale con il fuggiasco. Ma per le ancora più incredibili fasi successive, quando le nostre autorità gli trovano un comodo lavoro in un’officina meccanica, lo accompagnano e lo vanno a prendere in auto blu, quando ha altro da fare e fa filone telefonano per giustificarne l’assenza. Ecco in che modo commentano le toghe perugine quanto dichiarato dal datore di lavoro temporaneo nel nostro Paese, Giuseppe Scomparin. “Il teste ha confermato in primo luogo la sua conoscenza diretta con il dottor Masia, funzionario del ministero dell’Interno, a motivo del fatto che la sua officina si occupava della blindatura delle autovetture di servizio presso lo stesso ministero ed il Masia era il responsabile della motorizzazione della polizia. Approfittando di tale rapporto di conoscenza Masia gli aveva chiesto di poter tenere presso la sua azienda il Gelle, vi era necessità infatti che il cittadino somalo non rimanesse ‘in mezzo alla strada’ durante il suo soggiorno in Italia”.
Continua la story: “Scomparin non aveva idea di chi fosse Gelle, né il motivo del suo soggiorno in Italia; all’epoca non sapeva neppure il suo nome né gli aveva fatto domande, credeva di fare un favore personale ad un qualche ‘pezzo grosso’ della Polizia. Ha specificato come il Gelle veniva portato in officina da personale della polizia che lo veniva a riprendere a fine giornata; si trattava di persone che all’apparenza avevano un controllo costante sugli spostamenti del cittadino somalo tanto che, quando un giorno non veniva condotto presso la sua officina, riceveva una telefonata che gli preannunciava la sua assenza”.
A bocca aperta le toghe della Corte d’Appello davanti a questa ricostruzione. Così notano: “osserva la Corte come, ancora una volta, ci si trova di fronte a condotte che generano sconcerto: Gelle era il teste chiave di un dibattimento che aveva avuto, e che all’epoca ancora aveva, estrema risonanza in relazione alla vicenda sulla quale doveva tentare di far luce; era stato rintracciato in Somalia e appositamente fatto venire in Italia con le modalità segnalate, era costantemente sotto controllo dopo che aveva reso le sue dichiarazioni alla polizia e al pm, tanto che dall’ottobre 1997 erano state a lui costantemente consegnate somme di denaro per le sue necessità di vita; e malgrado ciò, di punto in bianco, era scomparso, all’apparenza senza lasciare traccia, eludendo la sorveglianza e senza che risultino essere state effettuate delle ricerche mirate per cercare di rintracciarlo. Ricerche che sono state proficuamente svolte anni dopo, senza neppure particolari difficoltà, non dalle forze di Polizia ma da giornalisti della Rai che non avevano certo le possibilità investigative di cui all’epoca si disponeva per le ricerche!”.
Sbigottiti i giudici della Corte d’Appello di Perugia. Per questo e per tutti i buchi neri di cui l’omicidio di Ilaria Ali e Miran Hrovatin è regolarmente disseminato.
E ora? Si comincia da capo. Ma ci sarà mai la volontà autentica di identificare killer e mandanti, svelare collusioni e complicità, alzare il velo su quel duplice delitto di Stato?
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30 ottobre 2016
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Ilaria Alpi, televisione pubblica e morti “private”
Caro Campo Dall’Orto,
Le rivolgo questa (ingenua) lettera aperta non solo in qualità di Direttore Generale della Rai ma come persona. Quindi non stupisca se non inzeppo la nota di riferimenti ai conti dell’Azienda, ai cachet di Sanremo, al costume mai scemato della lottizzazione delle nomine, o (addirittura) al Suo rapporto con Renzi, più o meno diretto che sia. Di tutto ciò almeno in questo momento non me ne può importare di meno, anche se tutto si tiene. Le scrivo invece all’indomani della notifica delle motivazioni di una sentenza speciale: quella della Corte d’Appello di Perugia che nello scorso ottobre ha mandato assolto l’unico colpevole dopo 16 anni di detenzione ingiusta, perché chiarissimamente innocente.Come avrà già capito, sto parlando di una tragedia di 23 anni fa, dei due giornalisti della Rai Ilaria Alpi e Miran Hrovatin trucidati a Mogadiscio. In quei giorni Lei era un trentenne brillante già in carriera. Immagino che quel duplice assassinio l’abbia colpito allora, da lontano, e continui a colpirLa a maggior ragione oggi, che è Direttore Generale della stessa Azienda per conto della quale erano in Somalia a fare il loro lavoro le due vittime. Ebbene, la sentenza di Perugia fa piazza pulita di tutte le inchieste condotte finora, ci dice in termini forti che c’è stato un “depistaggio di Stato” dietro l’altro con almeno due Paesi coinvolti, il nostro e la Somalia, che non si sa chi è stato e bisogna scoprirlo. Dopo 23 anni, sì, meglio tardi che mai, anche per la madre di Ilaria che insiste e resiste perché la verità venga fuori. Ma per questo non bastano lei, il suo avvocato, i colleghi non distratti. Vede, Direttore, Lei è la persona nel ruolo decisivo perché ciò accada. E avendoLa conosciuta e apprezzata sia pur fuggevolmente per la sua affabilità, ho fiducia che Lei come persona e cittadino in questo frangente muova il Dg.
Con la molla di un’etica e di un senso di giustizia che immagino sia Sua personale e che diventerebbe di colpo di tutta la Rai. La ricorderebbero comunque per questo, e Lei non dovrebbe considerare che Ilaria avrebbe adesso poco più della Sua età… Intanto se Lei desse subito dei segnali l’Usigrai non potrebbe non seguirla, così come tutti coloro che in questi anni continuativamente o intermittentemente hanno ricordato quell’omicidio. Poi costituirsi parte civile in un processo da ricominciare immediatamente parrebbe davvero il minimo. Infine potrebbe far diventare di nuovo pubblico un caso che sembra dimenticato come un “semplice delitto” che l’inviato diplomatico del governo Berlusconi di allora, Giuseppe Cassini, liquidò di fronte a Veltroni come una vicenda “forse senza mandante né movente”.
Ecco, qui il Direttore Generale della Rai potrebbe incidere davvero. Non la notiziola nei tg, come periodicamente si fa per Giulio Regeni, bensì una struttura di programmi dedicati alla vicenda. Non Le manca spazio temporale da servizio pubblico né conduttori coraggiosi: pensi quanto e come riguadagnerebbe in termini di seguito e di fidelizzazione (credo ci tenga…) una ricerca giornalistica della verità. Cassini sarebbe un ospite prezioso: dica quello che sa davanti a una telecamera. E il sostituto procuratore Giuseppe Pititto, autore dell’unica inchiesta che stava avanzando, che dice pubblicamente “cercate chi mi ha tolto l’inchiesta e troverete la verità” non sarebbe adatto nel parterre di ospiti in prima serata? E i sospetti di strani baratti tra armi e rifiuti tossici, nel post-colonialismo straccione e paraistituzionale che ci riguarda, il coinvolgimento di servizi (deviati? mirati?) e forze di polizia di più Paesi non meriterebbero un approfondimento? Non sarebbe un dovere? Quelle morti e il depistaggio successivo pesano come macigni. Lei mi capisce, vero?
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4 pensieri riguardo “ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN / GIUSTIZIA NEGATA, E’ DEPISTAGGIO DI STATO”