Cinebotto di Natale. Mai – a memoria d’uomo – un dicembre di vuoto pneumatico così totale, di nulla confezionato a festa. Voto da Bolzano sottoneve per il Bauli strascaduto del solito De Laurentiis, avrebbe fatto meglio a ingaggiare madame Icardi per alzare, almeno, il punteggio (o il puntale). Da brividi il solito Pacco dei tre usciti dal Cottolengo, i mentecatti di una vita Giovanni Giacomo e chi cazzo è. Uno tsunami di titoli che più inutili non si può, un diluvio di cianfrusaglie kitsch che neanche il più sgarrupato rigattiere a Porta Portese oserebbe esporre per il rischio di lapidazione.
Solo una pellicola, come araba fenice, si solleva dal monnezzaio, decolla e incolla tutti a quel mitico maxi schermo ormai perduto, percorso senza ostacoli e senza rivali. Il Sully di Clint Eastwood che con la sua story del volo da 2 minuti e 40 secondi surclassa i non concorrenti della ex celluloide.
Strabatte tutti, of course, però non riesce a sconfiggere un solo avversario: se stesso.
Nella sua perfezione, infatti, Sully è un capolavoro. Un gioiello. Uno scrigno da aprire con la cura più estrema, osservare e ammirare.
Ma era altro il sofferente pathos di Million Dollar Baby, il grondante mistero di Hereafter, la crocefissione laica di Gran Torino, solo per dirne alcuni, tra i suoi pezzi da novanta. Questione di tema.
E unico, Clint, tra i tanti divoni e divetti sfornati alle pendici di Hollywood, a dire quel che gli frulla per la testa. Senza chiedere l’ok di nessuno, anzi. Come il suo voto pro Trump, mentre le oche di silicone si sfidavano nelle genuflessioni pro Clinton band.
P.S. All’uscita da una delle multisale Med, a Napoli, dopo aver ammirato le peripezie acrobatiche e processuali del pilota-comandante Sully, un signore ha esclamato: “E noi tenimmo ‘a Schettino!”. Applausi.
Nella foto Clint Eastwood
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