Un illuminato e illuminante capitolo dall’ultimo libro di Oliviero Beha, Mio nipote nella giungla (Chiarelettere), in esclusiva per i lettori della Voce. Una impietosa riflessione, quella del grande giornalista e scrittore Beha, sul legame divenuto via via più perverso fra giornalismo e magistratura, mentre proliferavano le mostruose devianze dell’uno e dell’altro potere, dal caso Roberto Calvi fino a quello di David Rossi, in un impressionante parallelismo che rappresenta la sintesi di quasi quarant’anni costellati da misteri rimasti irrisolti, morti senza giustizia e da una stampa sempre più mutilata della sua forza vitale di spina nel fianco del potere.
Per la stampa come categoria è tutto molto legato alle note precedenti sulla parola scomparsa, il pensiero digitale e la libertà inesistente, che insieme costituiscono, almeno in teoria, la sua «materia prima»: con il paradosso, tendenzialmente ridicolo, che mentre il paesaggio si fa sempre più arido anche se travestito da giungla, fioccano i corsi privati di «giornalismo d’inchiesta», magari con buffet incluso. Si paga per avere un’idea più o meno precisa e intellettualmente onesta di quello che non ti faranno fare se non ti vendi. E per vendersi ci sono forme e progressioni variabili, non è difficile immedesimarsi in questa deriva.
Perciò, e a titolo solo esemplificativo, le polemiche sulla Rai, massima azienda nazionale di comunicazione pubblica, sulla carta, in realtà privatizzata per bande, sono risibili alla radice. È prevista così dal sistema di cui parlo. Naturalmente la gran parte degli aspiranti futuri giornalisti intende il mestiere esattamente come chiunque altro oggi, dai medici a scalare, una maniera per far soldi e solleticare il proprio narcisismo grazie alla visibilità e alla notorietà, a qualunque prezzo. E «questo» giornalismo fa il possibile per scivolare giù lungo il piano inclinato della giungla facendosela piacere, contribuendo a renderla sempre meno attraversabile e spingendola così sempre più in basso. Una discesa di cui non si vede la fine. Ma fate questo discorso a qualunque direttore, di tg, gr o giornali, o ai sindacati relativi: sarà come parlargli degli ufo. Lo sanno benissimo ma non vogliono saperlo. Non vogliono che glielo si ricordi, altrimenti per salvare la faccia dovrebbero o uscire dal mercato truccato o riconoscersi pubblicamente come correi del sistema guasto italiano.
Anche qui parlo per esperienza personale al quadrato. Come dimenticare le «messe cantate» di Eugenio Scalfari, fondatore e direttore de «la Repubblica», un giornale nato per fare opinione in un momento storico decisivo come i secondi anni Settanta, tra terrorismo interno, politica di volta in volta in composizione democristian-comunista e scomposizione a sinistra, e la tv d’abord? Con la convinzione dello ieratico timoniere di poter così influenzare il potere politico nelle sue varie declinazioni, di ogni livello del quale il per noi familiare «Barbapapà» si sentiva un gradino più in alto.
Sinistra radical-chic, si diceva. Era vero. E comunque allora si ragionava, pur con la puzza sotto il naso di fronte a una realtà maleodorante, avendo come contraltare il naso di Montanelli dichiaratamente turato al momento di votare per la Dc, con Moro neppure tanto contrapposto a un’opposizione di sinistra in nome di un Paese più armonico, tanto da pagare le sue scelte e il suo impegno con la vita. E lo spessore di editorialisti e cronisti era ragguardevole, specie di quelli già non più di primo pelo.
Forse era tutto finto, ma lo ammetto: ci o mi sembrava che qualche spallatina al «sistema», già solidamente in atto, la si desse. Pur in mezzo alle contraddizioni e alle nebbie, alla zona grigia in cui il sistema summenzionato prosperava, certo. Curiosamente, ricordo con chiarezza che una volta, nella primavera del 1982, mi chiamò l’augusto direttore, più intelligente che colto, più cinico che malevolo, di una profondità d’ingegno meravigliosamente superficiale, mentre mi trovavo in Perù per pezzi di giornalismo di costume, più o meno sportivo. Mi chiese di informarmi sul macroscopico scandalo internazionale Sindona-Calvi-Banco Ambrosiano-Gelli eccetera, allora in grande spolvero: se non ricordo male c’era una succursale di credito a Lima che poteva saperne qualcosa.
Brutta storia, più nera del nero, con massoni, Mafia e politica alla ribalta attraverso faccendieri coinvolti prima e dopo nei misteri italiani più intrinseci al sistema di cui parlo, come Francesco Pazienza e Flavio Carboni, «grembiulino» anch’egli oltre che sodale libertino (con qualche affare in comune di mezzo) del principe Carlo Caracciolo, cofondatore de «la Repubblica». Storia finita, si fa per dire, con quello che incredibilmente all’inizio fu archiviato dagli inquirenti come suicidio di Roberto Calvi, «autoimpiccatosi» sotto il Ponte dei Frati Neri, a Londra, nel giugno di quell’anno. Un pasticcione con risvolti tenebrosi che coinvolgeva nell’habitat italiano già marcio a sufficienza anche un boss del Vaticano come l’arcivescovo Paul Marcinkus… A oggi, dopo vari processi contradditori, la giustizia non ha individuato nessun colpevole, mutando solo in omaggio all’evidenza il suicidio in omicidio, senza un nome né per il sicario né per il mandante.
A distanza di oltre un quarto di secolo non trovate qualche «affinità elettiva» tra quell’omicidio sul Tamigi, acclarato come tale ma ancora oscuro, e il «suicidio» nel 2013 di David Rossi, responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, subito archiviato così dalla procura? Era stranamente precipitato da una finestra mentre scoppiava lo scandalo della più antica banca italiana e del mondo.
Qualcosa più di una banca, ahimè, che aveva distribuito denaro in gran quantità senza controlli né della Consob (altra Autorità, indipendente a parole, rientrante nella solita giostra) né della politica da cui dipendeva e che finanziava, con in testa da sempre il Pci e poi ex Pci fino a ieri. Un coacervo di interessi imprenditorial-finanziari di stampo prevalentemente massonico, dentro, fino al collo e anche oltre, al sistema avanzato di corruzione intrecciata che da qualche pagina vado cercando di mettere a fuoco, fotografando e zoomando la giungla dove il machete non basta, e ci vorrebbe forse il napalm.
Ma l’opinione pubblica ha dimenticato o rimosso il caso Calvi e gli addetti ai lavori di qualunque settore di magistratura giornalistica non sembrano disperarsi per questo buco di verità. Che succederà per Rossi adesso, in un sistema ancora più marcio ma 2.0, con tutte le variabili di internet, e un filmato colmo di dubbi rispuntato tre anni dopo? Interessante, vero? Ma non è ancora più interessante se giustapposto come tessera alle altre in un mosaico terribile?
Comunque, dall’epoca di Sindona & banditi a oggi è successo qualcosa di molto significativo, sia alla magistratura che al giornalismo. In peggio, rassicuratevi… E il Mowgli di mia competenza ha di che scuotere il capino. Nel ventennio, definito complessivamente berlusconiano anche con qualche intromissione prodiana oggettivamente «complementare» o «compromissoria» all’interno del sistema sempre più guasto, l’antinomia politica-giustizia è arrivata al suo diapason. Facendo credere a un popolino esterno a questo sistema, magari distratto e rassegnato nonché opportunisticamente tifoso di una delle due parti in un derby da toni grotteschi e cronache boccaccesche, che «questo» fosse il problema.
Ossia un tycoon d’estrazione affaristico-mafiosa sceso in politica per salvare le sue aziende e poi funzionale a una parte dell’apparato, e una magistratura inquirente e giudicante che, soprattutto dopo la stagione di Mani pulite, aveva preso forza e qualche volta barlumi di autonomia. Di certo tale ventennio ha fornito alle due parti un alibi gigantesco, una specie di grattacielo modello Dubai: a Berlusconi è servito per fare la vittima di una giustizia «politicizzata» a sinistra (ovviamente solo quando gli dava torto), alla magistratura per far passare l’idea che essa fosse sotto attacco della politica, intesa complessivamente, in quanto accusata di tentare di sostituirla in qualche modo.
Ci sono magari particelle di verità in tutto ciò. Ma è un fatto che il grattacielo/alibi ha creato le condizioni perché non si vedesse abbastanza chiaramente quanto fosse degradata la politica di ogni colore o sedicente schieramento, e soprattutto quanto fosse malata, come la sanità o la scuola, anche la giustizia italiana. Che purtroppo fa parte, o ne dà l’impressione quasi sempre confermata dai fatti, dello stesso sistema che dovrebbe combattere. Dipende dalla politica, direttamente per nomina o per vie traverse, a partire dal Consiglio superiore della magistratura, a scalare per tutto quello che la riguarda. Così che è da un pezzo acquisito come «normale» che tra magistratura e politica ci sia un’osmosi elettorale e istituzionale, con grave danno di immagine e sostanza, di fraintendimento e strumentalizzazione, per entrambe le classi duellanti. Che invece rispettando Montesquieu dovrebbero essere due poteri autonomi, il giudiziario e il legislativo.
Nella stragrande maggioranza dei luoghi e dei livelli, poi, la giustizia penale, quella civile e amministrativa sono lizze sospette in cui la dizione «la legge è uguale per tutti» fa ormai sorridere, nel senso di piangere lacrime amare, senza alcuna uniformità né tantomeno certezza del diritto, il che nebulizza anche solo il più vago concetto di difesa della legalità, dove manca tutto: il rispetto tra le parti, il personale sufficiente nei tribunali, la fiducia che la legge sia uguale per tutti. Non lo è, e purtroppo ormai si sa. Ed è scesa come nel resto, nella sanità, nella scuola, nell’informazione, la qualità media dei magistrati, obnubilati dall’onnipotenza e garantiti dall’avanzamento di carriera non per merito bensì per anzianità.
Quindi, a eccezione di pochi di loro, inquirenti e giudicanti, degni di stima e ammirazione, capaci di tenere separato il lavoro dalla loro idea politica o di società, quello della magistratura è un ambiente malsano come il sistema intricato nel quale in qualche modo è inserito. Ed è malato il rapporto del cittadino con la giustizia, anche senza ricordare la cronaca nera, che ci riserva frequentissime notizie sul coinvolgimento di magistrati in qualche scandalo.
Nell’antinomia politica-giustizia sub specie berlusconiana naturalmente i media sono stati molto presenti, schierati a grandi linee con l’una o con l’altra. Ma anche in questa parte di magistratura giornalistica, compenetrazione di notizie e diffusione delle stesse, mentre i magistrati tendevano sempre più spesso alla visibilità, in oltre trent’anni, da Calvi in poi, è successo qualcosa. Intendo la concentrazione sempre maggiore delle testate di stampa, fino alle più recenti fusioni all’ombra del Caimano di sinistra, De Benedetti, omologo di Berlusconi ma autosistematosi dalla parte meno «sputtanata». All’apparenza.
Non bastavano le tradizionali proprietà editoriali largamente maggioritarie nel mercato truccato – «impure» da sempre, cioè use ad acquisire e poi sfruttare i propri mezzi di comunicazione per favorire affari in altri settori di loro competenza, dall’edilizia alla farmaceutica a tutti i gangli industriali più delicati e importanti del Paese – benedette dalla politica. Con le ultime aggregazioni non si capisce bene quanto manchi a un unico, magari apparentemente frastagliato padrone, certo di garanzia per «la libertà di stampa»…
Così che le organizzazioni criminali, la politica e il capitalismo di relazione, già ben cementati tra loro nell’impasto che ci sta finendo di schiantare in assenza assoluta di democrazia e trasparenza, possano anche contare sul compiacimento generico della magistratura e il consenso automatico di media che non chiamerei neppure di regime. Semplicemente, il piano su cui poggia la giungla, imbarazzante già prima per la latitanza della libertà di pensiero ed espressione, essendo inclinato, li fa rotolare sempre più velocemente. Nient’altro. A questo sta andando incontro zampettando mio nipote, ma anche i vostri, poiché i figli paiono già abbondantemente fottuti.
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Un commento su “L’Italia al tempo della Magistratura giornalistica”