Napoli, Lanzetta e il mondo. Oltre Peppenella.

Centinaia di migliaia di anni luce prima che a qualcuno venisse in mente di scrivere e rappresentare Gomorra, c’era già uno scrittore maestoso come Peppe Lanzetta ad affondare il bisturi nel ventre putrefatto di Napoli per estrarne le carni di uomini e donne ancora in cerca di salvezza e di una qualche possibile forma di umanità. Tutto questo per dire che chi da inizio anni Ottanta ha letto, ha amato, ha ascoltato Peppe, seguendolo fin dai piccoli teatri semiclandestini del centro storico, sa bene che tutto ciò che è arrivato DOPO, le Gomorre, i Gomorroidi, le serie Sky Atlantic, i Ciruzzi, i plotoni di giovani sanguinari al seguito, tutto era stato già magistralmente scritto, sofferto e rappresentato almeno venti anni prima. Tanto che, volendo andare indietro per cercare un gigante della letteratura del Novecento come riferimento ideale di Peppe, non possiamo che incontrare Domenico Rea, non possiamo che inchinarci ancora una volta dinanzi al crudo, poetico realismo dell’immortale cantore di Nofi, del quale a buon diritto Lanzetta rappresenta il più intenso epigono (a cominciare proprio dal Premio Domenico Rea assegnatogli nel 2006 per il romanzo ‘Giugno Picasso’, la sua opera più matura e consapevole).

Quello che i tanti lettori ed estimatori di Peppe Lanzetta non conoscono forse fino in fondo sono le tappe degli esordi di scrittore. Componeva i suoi testi, il giovane Peppe. Chiome bionde al vento, cappellino calato sulla fronte, la stazza, quella già c’era, del ragazzone partenopeo amante del buono e, nel profondo, una sorgente narrativa incontenibile, lo sguardo affilato sulla realtà, il bisogno impellente di dirsi fino in fondo il vero su una città ed un popolo che per Rea erano, già quarant’anni prima, non dissimili dalle folle di miserabili immersi nel Gange, e per Lanzetta restano, tutto sommato ancora oggi, un angolo di Burkina Faso capitato per caso nel cuore dell’Europa mediterranea. Una città che ‘coce’ oggi, come ‘coceva’ allora, caro Peppe, senza che sia cambiato niente da quando salivi le scale del Teatro Parioli, fortemente voluto da Maurizio Costanzo, poi, dopo l’exploit, quelle di Samarcanda, accanto a Michele Santoro, fino a decidere insieme a noi della Voce che quei testi che componevi per il tuo teatro erano già musica, erano già poesia, e cominciammo insieme a pubblicarli sulla Voce della Campania…

Il nuovo libro di Peppe Lanzetta. In apertura una scena da L'Opera di Periferia

Il nuovo libro di Peppe Lanzetta. In apertura una scena da L’Opera di Periferia

E c’è un’altra cosa che i lettori lanzettiani probabilmente non conoscono fino in fondo: quella straordinaria, magica e dolorosa commedia musicale che si chiama L’Opera di Periferia, un autentico gioiello dell’esperienza teatrale italiana, ma anche uno squarcio di vita per decine di giovani dei quartieri più emarginati. Un modello esemplare di come sia possibile – rectius: di come sarebbe stato possibile – coniugare arte e salvezza per intere generazioni di ragazzi napoletani, se davvero fosse stato questo l’obiettivo di chi ci ha governati. Ma non lo era.

Si può essere ‘poeti del dolore’ fino in fondo, senza mai rinunciare quei bagliori di ironia e involontaria comicità che talvolta salgono dal lutto come un ospite indesiderato, imprevisto, eppure tremendamente necessario? Ecco, Peppe ci dimostra che per lui – ma solo per lui – tutto questo è tecnicamente e artisticamente possibile. Anzi, è parte essenziale della sua esperienza di attore e di narratore, fino al punto che per conoscere davvero quale incredibile campionario di vicende umane alberghi ancora oggi in questa città, non puoi che leggere Lanzetta. Oppure non lo saprai mai fino in fondo. Oppure ‘non ti parte la vita’, non ti partirà mai, come una vecchia cinquecento costretta ancora a marciare, come la vita del ragazzi del Bronx che nell’Opera di Periferia ci hai cantato sulle note di ‘Un rep’, un indimenticabile ‘Rep’ dal quale, secondo noi, bisognerà prima o poi ripartire.

Ecco, se vogliamo parlare veramente di questo terzo Commissario Peppenella (“Ti lascio una canzone”, Centoautori, novembre 2016), che arriva dopo gli esordi del 2014 (“Il cavallo di ritorno”, perché solo a Napoli è possibile rubare la statua del sommo poeta di piazza Dante e poi chiederne il riscatto), e il secondo lavoro del 2015 (“La luce sia con voi”), dobbiamo andare oltre il giallo, dobbiamo superare la cortina del noir (che pure c’è), per andare alle radici profonde di un autore che deve la sua grandezza alla assoluta nudità prescelta come lente interpretativa del reale. Perché sì, Napoli e il suo mondo basterebbe solo guardarli senza finzioni. Ma nessuno dei contemporanei, tranne Lanzetta, lo fa. E nessuno sa farlo come lui.


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