Giallo Alpi. Giorni fa l’ennesimo schiaffo alla memoria di Ilaria e Miran Hrovatin, l’assoluzione del killer inventato dai “burattinai” per depistare meglio, 26 anni affibbiati Hashi Omar Assan che c’entrava come il cavolo a merenda. “Una conclusione schifosa, una tragica farsa”, ha ancora la forza di commentare Luciana Alpi, la sempre più sola madre di Ilaria.
Solo una giustizia inefficiente? Dotata sempre dei soliti scarsi mezzi? Oppure pigra e farraginosa? Altri aggettivi servono meglio a descrivere i fatti: depistante, utilizzata solo per coprire quanto è realmente accaduto. Quindi, in soldoni, complice. Soprattutto se il burattinaio è da novanta: addirittura in casacca a stelle e strisce, la CIA. Ci sono – a questo punto del giallo tragicamente farsesco – molte tessere del mosaico che combaciano, e mandano una luce sinistra. Vediamole, ripercorrendo alcuni passaggi recenti e passati.
Ecco un paio di frasi pronunciate da Luciana Alpi: “Oggi abbiamo appreso che Ilaria è morta di caldo. Sì, di caldo, in Somalia”.
“Sono furibonda per tutto quello che hanno fatto e disfatto per coprire gli assassini e i moventi di un duplice delitto”. “I giudici non hanno ascoltato i veri protagonisti di questo lungo depistaggio”.
“Dai verbali delle udienze emerge che l’ambasciatore Giuseppe Cassini ha portato in Italia il testimone Gelle, il quale accusa Hashi di aver sparato a Ilaria e Miran. Ma non c’è mai stato un giudice o una Corte che lo abbiano interrogato. Per confermare o per smentire. Hanno condannato un giovane sulla base di una sola dichiarazione”. E oggi neanche si scusano.
Continua la signora Alpi, una donna ormai distrutta nel morale e provata anche nel fisico: “Una giornalista di ‘Chi l’ha visto’ (Chiara Cazzaniga, ndr) ha rintracciato Ali Rage Ahmed, alias Gelle, lo ha intervistato, si è fatta dire la verità. La Procura di Roma sapeva dov’era. Viveva alla luce del sole. Ha fatto finta di niente. Non lo ha mai interrogato. Ripeto: uno schifo”.
“Ormai sono convinta che sulla morte di mia figlia e di Miran non è stato fatto nulla a livello di indagine. Sul caso si sono alternati negli anni ben cinque magistrati e tre procuratori. Eppure nessuno è riuscito a porre fine alle troppe bugie, ai troppi depistaggi che hanno caratterizzato questa vicenda. Ho ormai la netta impressione che gli inquirenti non siano mai stati interessati a scoprire la verità”.
LO SCIPPO DELL’INCHIESTA
Ce n’era uno, entrato subito in scena. Ma proprio perchè aveva forse intenzione di scoprire quella verità è stato immediatamente fatto fuori, estromesso dalle indagini. Si tratta di Giuseppe Pititto, che per quei primi tentativi di far luce sul giallo di Mogadiscio non solo venne scippato del fascicolo istruttorio, ma cacciato da Roma, per preciso volere dell’allora procuratore capo Salvatore Vecchione. Pititto ha quindi lavorato a L’Aquila per alcuni anni, poi, stanco di questa giustizia, ha abbandonato la toga.
Ha però avuto la forza, Pititto, di scrive un thriller politico per Fazi Editore, “Il grade corruttore”. Ecco la trama: protagonista una giornalista, Federica Olivieri, inviata nello Yemen. E’ a caccia di una pista per un traffico internazionale di armi, scopre che il burattinaio è nientemeno che il nostro ministro degli Interni, Ugo Miraglia, il quale, ovviamente, sta per diventare Capo dello Stato. Federica viene barbaramente assassinata, partono le indagini e subito il procuratore capo di Roma dà tutto per chiaro, un tragico incidente, i soliti balordi. Per un puro caso il fascicolo finisce nelle mani di un giovane pm, Davide Nucci, il quale man mano si troverà sempre più debole e isolato. Proprio mentre il ministro Miraglia entra al Quirinale. “Magistratura, politica, giornali, tutti si schierano in silenzio, partecipando a una colossale recita in cui ogni ruolo, ogni battuta, risponde ad una regia spietata”.
Veniamo al cuore del giallo, che batte amerikano. E riportiamo alcune parole tratte da un altro libro, uscito nel 2008, “Giornalismi & mafie”, curato da un vero maestro dell’informazione, Roberto Morrione. Nel denso capitolo significativamente titolato “L’omicidio di Ilaria Alti – Alta mafia tra coperture, deviazioni, segreti” eccoci di fronte ad un paio di quesiti chiave: “perchè il dottor Pititto è stato estromesso dall’inchiesta proprio in un momento delicato e di possibile svolta nelle indagini? Il dottor Pititto, con la collaborazione della Digos di Udine, aveva fatto giungere in Italia i due testimoni oculari, Ali Abdi e Nur Aden, l’autista e l’uomo di scorta, ma non li ha potuti interrogare”. Come mai? Altro interrogativo da novanta: “Perchè non si è individuato chi, tra le autorità italiane e dell’Unosom, ha consentito o collaborato o addirittura disposto di costruire un capro espiatorio?”. Da tener ben presente che già otto anni fa – ben prima della fresca sentenza – Hashi Omar Assan veniva definito un “capro espiatorio”! Subentrerà nelle indagini a Pititto il pm Andrea De Gasperis, che caratterizzerà la sua azione per “incompetenza e sciatteria”, come denunciarono i coniugi Alpi.
Andiamo, a questo punto, alla Digos di Udine, che se le cose fossero andate come giustizia comanda (con un Pititto alla guida delle indagini) avrebbe rischiato – udite udite – di far luce su quella tragica connection, a forti tinte Usa. Un rischio che non si poteva certo correre: per questo estromessa Udine, cacciato Pititto.
NEI MISTERI DI VIA FAURO
Maggio 1994. Subito alla ribalta la prima “fonte confidenziale” (ne seguiranno altre due) che contatta la Digos friulana. Fa il nome di due italiani che vivono e operano a Mogadiscio da anni. Si tratta di Giancarlo Marocchino e Guido Garelli, un imprenditore esperto in logistica da molti etichettato come disinvolto faccendiere, il primo; un colonnello impegnato dei deserti del Sahara occidentale (un po’ come il Drogo nel Deserto dei Tartari di Buzzati) con la passione per la Somalia, il secondo. Fornita l’imbeccata, la fonte sparirà nel nulla. Ma prima accenna ad una “piccola società aerea che fa capo a Marocchino e Garelli ed ha sede in via Fauro a Roma”.
Drizzano subito le antenne due ispettori della Digos di Udine, Giovanni Pitussi e Antonietta Motta. Quest’ultima, in particolare, ha ben presente una trasmissione del Costanzo Show in cui, guarda caso, sono ospiti i genitori di Ilaria, e si parla del recente attentato di via Fauro che avrebbe avuto come obiettivo l’abitazione del giornalista. Si mettono subito al lavoro, Motta e Pitussi, e scoprono che proprio a via Fauro hanno sede tre società che si occupano di trasporti, anche aerei: Finarma, Fin Chart e Saniservice. La prima fa capo nientemeno che a un ex magistrato, Pio Domenico Cesare, che stanco di codici e pandette pensò bene di darsi anima e corpo ai traffici di monnezza, meta preferita la Somalia. Dettagliò addirittura nel 1995 un servizio firmato da Luigi Grimaldi per il settimanale “Avvenimenti” che la toga-imprenditrice “coordinava gli incontri tra la Fin Chart e i rappresentanti somali per definire il progetto di smaltimento dei rifiuti tossici nel Corno d’Africa”. E a via Fauro 59 è localizzato il primo quartier generale di Fin Chart. Come mai la procura romana non approfondì quel ramo d’inchiesta il cui imput arrivava dalla Digos di Udine? Come mai delle indagini, pur avviate dal pm Franco Ionta, si sono perse le tracce? E non è stato approfondito un tassello strategico, ossia l’incrocio con un’altra strage, quella del Moby Prince, in cui fanno capolino misteriose sigle guarda coso ubicate sempre nella affollata via Fauro? L’ennesimo buco nero – quello del Moby Prince – sul quale da un anno è impegnata una fresca commissione parlamentare d’inchiesta.
Nei rapporti Digos veniva fatto espressamente cenno ai possibili mandanti del duplice omicidio, tra cui il titolare dell’altra compagnia dei misteri, la Shifco (che trasportava rifiuti tossici a bordo delle navi donate del nostro governo), ossia Mugne Said Omar; e un trafficante di armi ed esponente del clan Murosade, Osman Mohamed Sheikh. Ma c’è un terzo personaggio rimasto nell’ombra, “un somalo-americano prima arruolatore di Mujadin per conto della Cia – scrive Grimaldi – e poi portavoce delle Corti islamiche”.
Eccoci, allora, dentro le connection a stelle e strisce che portano da Mogadiscio direttamente negli States. Esiste la verbalizzazione di un ufficiale dei carabinieri (il nome non è mai trapelato) secondo cui la trappola mortale per Ilaria e Miran venne organizzata dalla Cia. Vero che riferisce “de relato”, fonti dell’allora Sismi e dell’Ambasciata italiana: ma che fine ha fatto quella pista? Ricorda qualcosa l’ambasciatore Giuseppe Cassini, così solerte da portare per mano in Italia l’accusatore taroccato Gelle?
Passiamo a un’altra sigla il cui nome fa solo ora capolino attraverso la desecretazione – decisa un anno fa – delle centinaia e centinaia di pagine. Si tratta di CISP, una delle tante organizzazioni non governative che allora lavoravano nel Corno d’Africa per l’Italia. Ma strategica: perchè si occupò dell’ultimo trasporto di Ilaria e Miran, provenenti da Bosaso e in arrivo all’aeroporto di Mogadiscio. Come mai un cambio in corsa, visto che era stato fino a quel momento curato – e doveva esserlo anche quel giorno – dal servizio ufficiale per i trasporti, Unisom? Come mai la delicatissima notizia degli spostamenti dei due nostri giornalisti viene affidata alla fino a quel momento sconosciuta Cisp?
Il quadro forse diventa più chiaro se passiamo Cisp ai raggi x. A guidarla una dottoressa italiana, Stefania Pace, a Modagiscio, con la suo Ong, dal 1988. E’ la compagna di un uomo di peso della Cia nella bollente capitale somala, Ibrahim Hussein, alias Malil. Un altro con il pallino della logistica, Malil, tanto che il suo posto – dopo il misterioso “suicidio” giocando alla roulette russa – viene preso proprio da Marocchino. Un vero hobby l’assistenza alla Ong e a tutta la Cooperazione made in Italy e promosso dal nostro governo, per Malil, visto che la maggior parte del suo tempo lo dedica ai destini della Cia a Mogadiscio, in qualità di “Top Asset”. Appartenente a una ricca famiglia somala, Malil compie i suoi studi nelle università yankee e viene arruolato, per quell’incarico al servizio dell’intelligence Usa, da un pezzo grosso, Mike Shankin, alias Condor, una vita da 007 tra Washington, Londra (in co-servizio con l’M16 di sua maestà britannica) e, appunto, Mogadiscio. E’ proprio Shankin a dirigere la caccia al generale somalo Aidid, in compagnia di due amici: John Garret, alias Crescent, e John Spinelli, alias Leopard. Per inciso, l’affiatatissimo tandem Shankin-Spinelli è coinvolto in un altro giallo, quello del rapimento dell’imam Abu Omar, in combutta con l’allora capo dei nostri Servizi, Nicolò Pollari, e con gli 007 de noantri capeggiati dalla Mancini & Tavaroli band.
TRE CUORI E UNA CAPANNA, LA CIA
Ma torniamo a Shankin. Una vita spericolata (tanto da costargli il licenziamento perfino da quei rotti a tutto della Cia!), però coronata da un grande amore. E con chi mai convolerà a nozze il fortunato Mike? Nientemeno che con una fresca vedova, Stefania Pace, un marito morto per gioco, ma secondo i più “eliminato”. Stefania, poi, si unirà a Mike anche sotto il profilo lavorativo, visto che i due si rimboccheranno le maniche con una attrezzata “consulting” in materia di informazioni, servizi & spiate.
La cordata dei compagni di merende non è ancora finita. Perchè nel team figura anche un altro uomo targato Cia, e ben nascosto sia dietro un nome di battaglia, Hamed Washington, che dietro un generico impegno per conto della Comunità europea, a fianco delle nostre Ong (come Cisp) sia sotto il profilo logistico-organizzativo che, ancor più, finanziario.
Ed eccoci ad un altro incrocio, una chiave per entrare al cuore del giallo sulla morta di Ilaria e Miran: é l’amico di Shankin e Spinelli, ossia Hamed Washington, a portare su un piatto d’argento all’ambasciatore italiano Cassini il teste taroccato, Gelle.
Tutto ancora da scoprire, quindi, il perchè di quel passaggio del testimone, deciso non si sa come e da chi, all’ultimo istante, tra Unisom e Cisp per quanto riguarda le consegne circa il trasporto di Ilaria e Miran dall’aeroporto di Mogadiscio all’albergo. Così ci si chiede con angoscia nel capitolo “L’omicidio di Ilaria Alpi”: bisogna “sviluppare l’inchiesta su che cosa accadde quella domenica 20 marzo dall’arrivo di Ilaria e Miran all’aeroporto fino all’agguato davanti all’hotel Humana: chi e con quale mezzo andò a prendere i due giornalisti all’aeroporto per condurli al loro hotel (il Sahafi); perchè, a conoscenza dell’estrema pericolosità della situazione, decidono di andare all’hotel Hamana (attraversando la linea verde). C’è un appunto di Ilaria significativo sulla consapevolezza della pericolosità circa la situazione, che avvalora l’ipotesi che il trasferimento dal Sahafi all’Hamana sia stata un vera trappola. Ecco il testo: ‘nessuno senza un motivo particolarmente valido passa da una zona all’altro. Qualunque spostamento deve essere accuratamente organizzato”.
Come mai, in 22 anni e passa, a nessuno degli inquirenti e procuratori succedutisi al capezzale dell’inchiesta è venuto mai in mente di interrogare, su quei nodi, Stefania Pace che curò, come Cisp, quello spostamento, e il tandem Cia? Perchè nessuno ha levato il cappuccio a mister Washington?
Si chiede e chiede Grimaldi: “Perchè dopo il duplice omicidio la sicurezza dell’hotel Hamana si reca proprio al Cisp per sapere come comportarsi e da lì viene contattato via radio Marocchino perchè intervenga? Perchè dopo anni un falso autista di Ilaria, ma in possesso di documenti autografi della giornalista Rai, incontra casualmente in Kenia la giornalista Isabel Pisano (buona e vecchia amica di Francesco Pazienza) durante un viaggio verso Mogadiscio, sulle tracce di Ilaria e Miran, organizzato per lei da Stefania Pace?”.
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3 pensieri riguardo “Uccisa due volte. Dalla Giustizia italiana”