L’incredibile diventa realtà. Alcuni big della camorra rivelano che il Giro d’Italia 1999 venne taroccato per una montagna di scommesse clandestine che avevano puntato sulla sconfitta di Pantani, ma la giustizia se ne frega. Il gup della procura di Forlì, Monica Galassi, ha infatti posto la pietra tombale su quella inchiesta, dichiarando l’archiviazione. Ma fa di più: e rileva “la decorrenza della prescrizione per le presunte minacce”.
A palazzo di giustizia pochi avrebbero scommesso (siamo in tema) un euro su questa decisione, per via della enorme massa di documenti che provano l’intervento diretto della camorra in quella maledetta tappa di Madonna di Campiglio, quando le provette del sangue di Marco Pantani vennero alterate da “ignoti” che minacciarono i medici dell’equipe.
Il caso si riapre per la lettera inviata da Renato Vallanzasca alla madre del campione, Tonina Belletti, in cui viene descritto come un detenuto nel carcere di Novara (è il 1999) gli confidò che “il pelatino non doveva arrivare a Milano”, e “quel Giro lo deve perdere”, per le colossali somme che la camorra avrebbe dovuto pagare per via delle scommesse. Poi sono arrivate altre verbalizzazioni “pesanti”, come quella di Rosario Tommaselli che, intercettato in una conversazione con la figlia, parla di “una sconfitta decisa dalla camorra”; e soprattutto quella del big boss di Mondragone, Augusto La Torre, il quale rivela agli inquirenti il contenuto di alcune conversazioni con altri tre pezzi da novanta della malavita campana: Francesco Bidognetti, alias cicciotto ‘e mezzanotte, la mente economica dei Casalesi e regista del business ‘monnezza’; Luigi Vollaro, ‘O Califfo, numero uno dei clan nella zona di Portici; e Angelo Moccia, al vertice della cosca che domina nell’hinterland partenopeo, epicentro Afragola. I tre – riferisce La Torre – “mi parlarono del Giro, delle scommesse, del clan Mallardo e del ruolo dei clan di Secondigliano”. Ancora: “Altro che bumbazza e bumbazza. L’hanno fatto fuori sennò la camorra pagava miliardi di scommesse clandestine. Era già successo con lo scudetto di Maradona…” . La Torre ha già verbalizzato su scottanti vicende e viene ritenuto un collaboratore “attendibile” dai vertici della Dda partenopea (il suo avvocato è l’ex toga del pool palermitano Antonino Ingroia). Ma stavolta dalla procura di Forlì – che purtroppo non distingue un pizzo da un merletto – non è ritenuto attendibile.
CHIAMALE SE VUOI ESTORSIONI
In realtà, il procuratore capo di Forlì, Sergio Sottani, e il pm Lucia Spirito, hanno raccolto una grossa quantità di materiale probatorio: ma alla fine delle indagini hanno ritenuto che gli elementi fossero idonei solo a parlare di “corruzione” e non “associazione a delinquere, minacce, estorsione, frode sportiva”, come reclamava la famiglia Pantani con il suo legale Antonio De Rensis.
Quasi a seguire il suggerimento, o meglio “l’interpretazione giuridica” data ai fatti dallo stesso boss La Torre, il quale ha commentato: “comunque era solo corruzione, nessuna minaccia”.
Ora, anche i bambini delle elementari – con la sola esclusione, evidentemente, della zona di Forlì – sanno che la camorra non veste in smoking né tratta in inglese. Forse La Torre, che fa affari con la sua dinasty in Scozia, e soprattutto ad Aberdeen, è ormai british. Purtroppo non è ancora così, nonostante la marea di colletti bianchi e super inamidati. Lo sottolinea anche il magistrato (ordinario e poi sportivo) Piero Calabrò: “mi auguro che la procura di Forlì si accorga che la camorra quando entra in gioco non corrompe, ma impone. E certo con metodi che non possono, per loro natura, non comprendere intimidazioni, minacce e tutto l’armamentario che segue”. E si augurava la trasmissione degli atti alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, per logica competenza: visto che proprio alla Dda partenopea sono custodite importanti verbalizzazioni, esiste una memoria storica del bubbone ‘scommesse’ e ‘camorra’. “Fermarsi adesso – proseguiva Calabrò – equivarrebbe a una inspiegabile abdicazione della società civile nei confronti di un gruppo criminale organizzato”.
Ma così è stato. Per il gup Galassi con ogni probabilità la camorra non esiste; è un’astrazione metafisica. I clan che da vent’anni e passa dettano legge in Emilia, in Romagna, a Rimini sono pure fantasie giornalistiche. Che la camorra faccia delle scommesse uno dei suoi business più a la page, è una favola. Elementare, Watson: un paio di signori, con marcato accento partenopeo, hanno chiesto se per favore era possibile cambiare le provette di Pantani, hanno consegnato una bustarella chiusa con sopra scritto “Mazzetta”, hanno bevuto un tè alla menta con i medici dell’equipe, li hanno saluti affettuosamente e invitati per una pizza a via Caracciolo.
E’ questa la giustizia di Casa e di Cosa nostra?
Ma leggiamo il Verbo della Giustizia celebrato nel Rito forlivese. Il clou di tutto – secondo le prime indiscrezioni – sono le parole del massaggiatore del campione, Primo Pergolato. E poi quelle di Vittorio Savini, il fondatore del club “Magico Pantani”. Che vi aspettavate: un boss, un medico dell’equipe? A proposito, il capo équipe non può più verbalizzare: l’olandese Wim Jeremiasse, grande esperto di Giri e Tour, infatti non parla più, perchè è finito in un lago ghiacciato in Austria con la sua auto sei mesi dopo quella maledetta tappa.
Bene: la Verità è affidata a un massaggiatore e a un supertifoso. “I quali – secondo il gup – pur genericamente confermando il contenuto minatorio riferito dalla Belletti (Tonina, la madre di Marco, ndr) e pur ribadendo la personale convinzione che nella esclusione dal Giro vi fosse l’intervento di qualcuno legato al mondo delle scommesse clandestine”, tuttavia “non sono state in grado di fornire indicazioni idonee a consentire l’individuazione dell’autore delle minacce verbali e telefoniche”.
Ai confini della realtà. Dalle parole di un capotifoso e di un massaggiatore dovevano saltar fuori nomi, cognomi, indirizzi, numeri di scarpe dei “signori” che hanno “trattato” l’affare delle provette contenenti il sangue (è il caso dirlo) di Marco? Mai pensato che dai 3 medici (tre) che hanno visto la scena in diretta forse sarebbe uscita qualcosina di più? Hai le fonti di prova e senti il netturbino che passa? E ti contenti di quello? E delle verbalizzazioni di boss e sottoboss te ne freghi?
E poi, sotto il profilo “tecnico”. Passi la prescrizione per la corruzione (che comunque, come visto, non esiste, in questi contesti). Ma per le minacce, come è mai possibile parlare di “avvenuta prescrizione”? Possibile che minacce, intimidazioni ed estorsioni – il perfetto kit dell’associazione a delinquere – si prescrivano in modo così fulmineo? E’ arrivata – a nostra insaputa – qualche riforma ferragostana del codice penale? O siamo al solito rito di Forlì?
LE 200 ANOMALIE DI QUELLA MORTE A RIMINI
Possibile far “peggio”? Ci sono riusciti, sempre nel giallo Pantani, le toghe riminesi. Che hanno archiviato la pratica “morte” con una pietra altrettanto tombale (contro la quale si è opposto De Rensis presentando ricorso per Cassazione, con una decisione attesa per i primi mesi 2017). A giugno, infatti, un altro gup, Vinicio Candolini, ha pensato che non c’erano dubbi, nessuna zona d’ombra nella tragica morte di Marco quel 14 febbraio, San Valentino, del 2004. Tutto chiaro, trasparente come il sole che splende lungo la costa romagnola. Lo stesso aveva fatto, del resto, il procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, che aveva subito chiesto l’archiviazione. Un suicidio in piena regola. Marco era depresso: quindi o per coca o per farmaci o per un mix, questa è la storia della sua scontata fine. E guai a parlare di omicidio.
Il corpo di Marco è stato trovato tumefatto, lacerato, ferito in diverse parti. Forse furia autolesionista da depressione.
Presenta segni di trascinamento. Forse movimenti convulsi da coca.
I materassi sono squarciati. Forse giocava a nascondino.
Alcuni mobili rotti. Forse si allenava per il karate.
Nell’armadio ci sono tre giubbotti. Marco era arrivato sono con un borsone. “Forse li ha portati inconsapevolmente il marito della manager di Pantani”, scrive il gup. Peccato che il marito della manager abbia verbalizzato di non aver mai visto in vita sua quei tre giubbotti.
Nel cestino dei rifiuti c’è la carta di un gelato Algida. “Forse l’ha gettata inconsapevolmente uno dei poliziotti in occasione del sopralluogo”, scrive sempre il gup. Ispezione spensierata, un pic nic in piena regola.
Esiste un filmato, di quel sopralluogo. Originariamente lungo, svariate ore: magicamente diventa un corto, pochi minuti, forse destinato a Cannes (e per questo tagliato e rimontato).
Ore 10 e 30 di quel San Valentino. Marco telefona alla reception: “per favore chiamate i carabinieri. Ci sono delle persone in stanza che mi danno fastidio”. Le forze dell’ordine arriveranno dieci ore dopo, alle 20 e 30, per constatare la “morte” di Pantani.
“Non 10 ma 200 anomalie”, tuona l’avvocato De Rensis. “E’ giustizia quella che archivia un caso del genere? Lo dico per tutti i cittadini. In questa nostra giustizia, quello che sembra normale può diventare praticamente impossibile”.
Marco non è stato ucciso una volta. Ma – fino ad oggi – tre volte.
P.S. La terza morte di Marco non fa notizia. Solo brevi in rete. Una ventina di righe al massimo. Sul sito de “Il Resto del Carlino”, in home page, apertura, campeggia una pubblicità. Quella di un 4 stelle e mezzo di Rimini, compresa super beauty farm, a soli 177 euro al giorno. E’ il “Le Rose”, la pensioncina dove Marco trascorse quella notte di San Valentino.
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GIALLO PANTANI / 200 ANOMALIE, IL J’ACCUSE DI DE RENSIS
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