Dobbiamo ritenere accettabile dire che ogni omicidio, ogni trasgressione del “non uccidere”, non possa riguardare che l’uomo (questione a venire)? E che insomma non ci sia crimine se non “contro l’umanità”?
La scimmia costituisce il termine di riferimento per l’uomo più vicino alla linea di confine con il resto del mondo animale. Ed anzi, la scimmia rappresenta probabilmente la “linea d’ombra”, la nostra immagine riflessa in uno specchio. Nessun altro animale è stato così profondamente associato alle idee occidentali sulla natura, sulla moralità e sulle origini umane.
La ragione di tale enfasi, probabilmente, è da ricercarsi nell’estrema somiglianza che le scimmie, ed in particolare le scimmie antropoidi, hanno con l’essere umano.
Gli europei che colonizzarono l’Africa, a giustificazione delle atrocità commesse, erano soliti affermare, per bocca di eminenti scienziati, che le popolazioni indigene erano equiparabili alle scimmie: tra tutti, basti ricordare il verdetto emesso a fine ’800 da Paul Broca, famoso patologo e antropologo francese, all’esito del confronto tra crani di uomini bianchi e uomini neri: “la conformazione del negro tende ad avvicinarsi a quella della scimmia”. Così pure nell’America degli inizi del ’900, vi furono scienziati che affermarono che i neri costituivano una razza intermedia tra l’uomo e l’orango, e che pertanto era assurdo pensare di dar loro un’istruzione in quanto privi delle necessarie capacità mentali.
In quanto simili alle scimmie, intere popolazioni africane furono sterminate o ridotte in schiavitù. In quanto simili alle scimmie, i neri d’America – e fino a non molto tempo fa i neri del Sud Africa – subirono segregazione razziale e impossibilità di accedere all’istruzione dei bianchi.
L’ambigua somiglianza delle scimmie antropoidi con noi include un vasto repertorio di emozioni, gesti e altri comportamenti che riconosciamo immediatamente. Tutto ciò comporta che esse incarnano una minaccia potenziale alla nostra stessa identità. È quindi proprio nel rapporto con le scimmie antropoidi, che maggiormente vengono utilizzati ed esasperati i modelli di differenziazione e demarcazione: le scimmie antropomorfe si pongono sulla linea di confine, e l’uomo ha disperatamente bisogno di rimarcare la differenziazione. Il mettere in dubbio l’esistenza di questa linea di confine comporta infatti, da un lato, il venir meno di tutte le nostre certezze circa la nostra unicità e superiorità; dall’altro, apre un varco non arginabile anche nei confronti di tutti gli altri animali, obbligandoci a ripensare tutto il nostro modo di rapportarci con il resto degli esseri viventi e, in particolare, la legittimità o meno del loro sfruttamento da parte nostra.
The Great Ape Project
Nel 1993 Peter Singer e Paola Cavalieri Cavalieri pubblicarono la Dichiarazione sui grandi antropoidi o grandi scimmie, sottoscritta da etologi, primatologi e filosofi.
Questo il testo, nella traduzione edita in Italia.
Dichiarazione sui grandi antropoidi.
Noi richiediamo che la comunità degli eguali venga estesa fino a includere tutti i grandi antropoidi: esseri umani, scimpanzé, gorilla e oranghi.
“La comunità degli eguali” è la comunità morale all’interno della quale noi accettiamo che certi principi o diritti morali fondamentali governino le nostre relazioni reciproche e siano tutelabili giuridicamente. Tra questi principi, vi sono i seguenti:
1.Il diritto alla vita.
La vita dei membri della comunità degli eguali deve essere protetta. I membri della comunità degli eguali non possono essere uccisi salvo che in circostanze rigorosamente definite, come per esempio l’autodifesa.
2.La protezione della libertà individuale.
I membri della comunità degli eguali non possono essere arbitrariamente privati della libertà; se imprigionati senza regolare processo legale, essi hanno diritto ad essere immediatamente rilasciati. La detenzione di coloro che non sono stati condannati per alcun reato, o di coloro che non sono penalmente imputabili, deve essere permessa solo nel caso in cui si possa dimostrare che è nel loro interesse, o che è necessaria a proteggere il pubblico dei membri della comunità che costituirebbero chiaramente un pericolo per gli altri se in libertà. In tali casi, i membri della comunità degli eguali devono avere il diritto di appellarsi sia direttamente che, qualora manchino delle capacità rilevanti, attraverso un procuratore, all’autorità giudiziaria.
3.La proibizione della tortura.
La deliberata inflazione di grave sofferenza ad un membro della comunità degli eguali, sia gratuitamente che per un presunto beneficio altrui, è considerata tortura, ed è sbagliata.
La Dichiarazione sui grandi antropoidi ha ispirato due rivoluzionarie iniziative legislative, che si richiamano espressamente ad essa: il 7 ottobre 1999, il Parlamento della Nuova Zelanda ha approvato il seguente emendamento alla legge di protezione degli animali: “Riconoscendo che gli ominidi sono esseri altamente sociali, emozionalmente complessi e intelligenti con la capacità di riconoscere se stessi; per affermare, proteggere e promuovere i diritti e le libertà fondamentali degli ominidi. Alle grandi scimmie viene riconosciuto: Il diritto di non essere privati della vita … (omissis). Il diritto di non essere soggetti a torture o trattamenti cruenti … (omissis). Il diritto di non essere soggetti a sperimentazione medica o scientifica. Ogni ominide ha il diritto di non essere soggetto a sperimentazione medica o scientifica che non sia per l’interesse dell’ominide stesso”.
E nel 2013 il Governo Spagnolo ha ripreso l’esame della proposta di legge, fortemente sostenuta dal precedente governo di Zapatero, volta a garantire alle scimmie antropomorfe, all’interno del Paese e sul piano internazionale, il diritto a non essere maltrattate, messe in schiavitù, uccise e condotte all’estinzione.
La Dichiarazione sui grandi antropoidi, le iniziative legislative di Nuova Zelanda e Spagna, e le argomentazioni a favore o contrarie, sollevano non poche questioni.
In primo luogo, le motivazioni espresse a sostegno dell’iniziativa si fondano sull’avere le antropomorfe caratteristiche assai simili a quelle proprie dell’uomo. Con ciò, parrebbe riproporsi il modello antropocentrico.
In secondo luogo, si pone il problema della possibilità per un animale di essere titolare di diritti.
Entrambe le questioni, poi, ne sottendono una di natura epistemologico-filosofica. Sia l’individuazione dei soggetti meritevoli di tutela, sia i modi di tutela, si richiamano a modelli tipicamente umani: si tutela chi somiglia all’uomo, e lo si tutela attraverso il diritto, modellato sull’uomo. La domanda che si pone è: è possibile per l’uomo una visione non antropocentrica degli animali, ed è possibile un agire non modellato sugli schemi propri dell’agire umano?
Attribuzione di diritti e comunità morale
Il riconoscere alle antropomorfe i diritti fondamentali alla vita e alla libertà costituisce una rivoluzione copernicana nell’ambito del sistema normativo: difatti, in primo luogo il riconoscimento di diritti implica il riconoscimento dello status di soggetto; inoltre, all’attribuzione di un diritto corrisponde l’imposizione del dovere di non violarlo.
Si passa dunque da una semplice benevolenza morale verso gli animali, il cui esplicarsi o meno è lasciato unicamente alla sensibilità dei singoli umani, ad un sistema che impone per legge il rispetto dei diritti fondamentali delle antropomorfe.
Sorge dunque la questione se, e i che senso, sia possibile attribuire diritti agli animali.
Le critiche avanzate da chi nega tale possibilità, si fondano prevalentemente sul fatto che gli animali non possono far parte della nostra comunità morale. All’interno di questa impostazione, vi è però una radicale differenza: alcuni sostengono che ciò deriva dal fatto che tutti gli animali sono privi di morale e, quindi, indegni di diritti: “Solo chi fa parte della comunità morale può godere di diritti, e gli animali non formano comunità morali: gli esseri umani sono gli unici esseri morali sulla terra”.
Altri riconoscono invece che gli animali hanno sì un certo livello di moralità, ma non possiedono quel grado di sofisticazione intellettuale che sola consente una responsabilità all’interno della comunità: “I diritti fanno parte di un contratto sociale, che senza responsabilità non ha alcun senso. Gli animali non possono e non potranno mai diventare membri effettivi della società, per cui non ha senso parlare di diritti”.
Afferma de Waal che le radici della moralità dell’essere umano si riconoscono, non solo biologicamente ma anche da un punto di vista comportamentale e cognitivo, negli animali; e che nel caso delle scimmie antropomorfe si può parlare dell’esistenza di una morale, seppur diversa da quella umana. Secondo de Waal, la moralità umana si può dividere in tre livelli distinti, dei quali il primo livello e praticamente metà del secondo sembrano trovare evidenti corrispondenze in altri primati. Siccome i livelli più alti non possono sussistere senza quelli più bassi, tutta la moralità umana sta in un rapporto di continuità con la socialità dei primati.
La moralità del primo e del secondo livello comprenderebbe: la capacità di empatia, la tendenza alla reciprocità, il senso di equità e la capacità di rendere armoniche le relazioni. Al secondo livello di moralità, ogni individuo tende a comportarsi in modo da favorire una vita cooperativa di gruppo, e vengono utilizzati gli strumenti della ricompensa e della punizione. Il terzo livello, è caratterizzato dall’interiorizzazione dei bisogni e degli scopi degli altri al punto che questi trovano posto nel giudizio che diamo del comportamento, compreso quello degli altri che non ci tocca direttamente: “il giudizio morale è autoriflessivo e basato su un ragionamento logico”. Come tale – prosegue de Waal – accessibile se non in minima parte per le antropomorfe e, comunque, non in misura tale da riconoscere loro responsabilità.
Le considerazioni fin qui svolte rinviano alla definizione di “moralità”, che è categoria concettuale umana. Quel che interessa qui esaminare, è se sia possibile attribuire agli animali dei diritti, a prescindere dal fatto che essi non facciano parte della comunità morale – o perché in radice non sono esseri morali, o perché comunque non possono assumersi responsabilità all’interno della comunità.
Neoutilitarismo e teoria del valore
Nell’ambito delle filosofie che si occupano del trattamento degli animali, è possibile distinguere due posizioni principali: il c.d. neoutilitarismo, il cui principale esponente è lo stesso Peter Singer, ideatore del Great Ape Project, e la c.d. teoria del valore, sviluppata filosofo americano Tom Regan, che pure ha sottoscritto il Great Project.
Entrambe le teorie sono dirette a dimostrare la necessità etica di una diversa considerazione degli animali e di un diverso trattamento da parte dell’uomo; ma sono diverse le premesse e diverse le implicazioni applicative.
La pubblicazione nel 1975 di Animal Liberation di Peter Singer segnò una vera e propria rivoluzione nell’approccio filosofico ed etico alla “questione animale”. L’opera di Singer può a tutt’oggi essere considerata il testo fondamentale del movimento animalista, e parametro imprescindibile per chiunque voglia confrontarsi con la tematica.
Il principio affermato da Singer è quello della eguale considerazione degli interessi. Partendo dall’esperienza empirica che dimostra l’esistenza di diversi punti di somiglianza tra umani ed animali, e soprattutto la capacità degli animali di provare sensazioni piacevoli e sensazioni dolorose, afferma la necessità di applicare il principio di eguaglianza anche al rapporto uomo-animale. La diversità di trattamento e di considerazione non può essere fatta dipendere dalla specie di appartenenza. Richiamandosi alla dottrina utilitaristica formulata da Jeremy Benthan, Singer afferma che la stessa quantità di sofferenza ha lo stesso valore e quindi deve pesare in modo eguale, qualunque sia il soggetto che la sperimenta. Ne segue che noi abbiamo nei confronti degli animali doveri diretti, riconducibili sostanzialmente al dovere morale di non causare dolore e sofferenza a nessuno degli esseri, umani e non umani, che sono in grado di sperimentarli.
Singer nelle sue opere non si era mai pronunciato per una diretta titolarità di diritti in favore degli animali: ma ha poi agito in tal senso, ideando e sottoscrivendo, appunto, la Dichiarazione dei diritti dei grandi antropoidi.
Diverso l’approccio teorico del filosofo americano Tom Regan. Regan è il propugnatore di una vera e propria teoria dei diritti degli animali, intesi come titolari di diritti. Regan condivide con Singer l’assunto di partenza, per il quale gli animali hanno rilevanza morale diretta, ma rifiuta la prospettiva utilitaristica, in quanto sia aperta al calcolo utilitaristico dei maggiori benefici per l’uomo a possibile scapito degli animali, sia priva di qualsivoglia distinzione in relazione all’estrema varietà e diversità delle specie animali. Secondo Regan, ciò che deve essere preso in considerazione è la possibilità di attribuire ad una certa categoria di soggetti – umani e non umani – un valore intrinseco: solo la presenza di un valore intrinseco consente e obbliga la protezione attraverso il riconoscimento della titolarità di diritti.
Regan afferma che gli esseri possono avere un valore intrinseco di per sé stessi, purché siano riconoscibili come soggetti-di-una-vita: vale a dire in grado di condurre una vita, che può essere buona o cattiva, peggiore o migliore per loro stessi, e rendersene conto. Tutti i soggetti-di-una-vita sono dotati di valore intrinseco e hanno pertanto il diritto basilare ad essere rispettati. Rispetto che si traduce nei diritti minimi quali diritto alla vita e diritto alla libertà.
Un punto assai importante nel pensiero di Regan è il riconoscimento di valore e, quindi, della titolarità di diritti non solo agli “agenti morali”, ma anche ai “pazienti morali”: i primi sono capaci di improntare la propria condotta a principi morali, in quanto sono dotati di sofisticate capacità di ragionamento, di comportamento e di scelta; i pazienti morali invece, difettando di uno o più dei pre-requisiti, non sono in grado di agire secondo un’accezione morale. I primi sono quindi responsabili delle loro azioni, i secondi no, oppure soltanto in misura limitata. Afferma Regan che “agenti morali” sono gli esseri umani, adulti e normali; “pazienti morali” sono neonati, bambini piccoli e esseri umani con handicap mentali, nonché molti animali, in particolare i mammiferi e i primati.
La teoria formulata da Regan appare di fondamentale importanza in quanto, per la prima volta, la considerazione degli animali passa dal piano morale a quello giuridico: in primo luogo, si ha una diretta valorizzazione di esseri non umani attraverso una loro diretta tutela giuridica; in secondo luogo, riconoscere la titolarità di diritti significa affermare l’esistenza di corrispondenti doveri, anche giuridicamente sanzionabili.
La distinzione svolta da Regan tra “agenti morali” e “pazienti morali”, infine, consente di superare l’impostazione di chi nega la possibilità di attribuire diritti agli animali, in quanto non facenti parte della comunità morale: come evidenza Regan, infatti, gli animali possono essere considerati “pazienti morali”, come i bambini e, come tali, godere di diritti, indipendentemente dalla loro capacità di assunzione di responsabilità e di partecipazione alla comunità morale.
Oltre l’antropocentrismo
Come già sopra evidenziato, l’attribuzione della titolarità dei diritti fondamentali alle antropomorfe, pare riproporre una visione antropocentrica. Infatti, sia il testo della Dichiarazione che le leggi collegate, si fondano sul principio che poiché le scimmie antropomorfe sono simili, e per tratti identiche, all’essere umano, dunque di devono estendere ad esse i diritti fondamentali.
La visione antropocentrica viene riconosciuta da alcuni degli stessi firmatari del Great Project: “Il concentrare l’interesse e le attività per i diritti animali sui grandi antropoidi non-umani è una espressione del pregiudizio antropocentrico”.
Tutto ciò parrebbe dare ragione a chi sostiene che poiché non possiamo uscire dalla nostra umanità, dal nostro essere-uomini e, pertanto, non possiamo esprimere valutazioni se non antropocentriche, non è possibile liberarsi dall’antropocentrismo nemmeno proponendo nuove etiche con un esplicito carattere, anziché antropocentrico, biocentrico, poiché ogni bioetica non può non continuare ad avere il proprio baricentro in un discorso sull’uomo e, pertanto, ne conseguirebbe l’inevitabilità per l’uomo di considerare l’essere umano superiore ad ogni altra forma vivente, ed in tale prospettiva conformare e giustificare il proprio agire, sfruttando e utilizzando gli animali[19].
Tale tesi in realtà confonde due aspetti del problema. Infatti, essa opera un’inaccettabile sovrapposizione concettuale tra “antropocentrismo” inteso come quella corrente di pensiero, marcatamente presente nel mondo occidentale, che attribuisce all’essere umano una posizione dominante e sopraffattrice nei confronti degli altri esseri viventi; e “antropocentrismo” inteso come modello cognitivo, ossia come modo di conoscenza e valutazione del mondo, che non potrà che svolgersi secondo caratteristiche umane.
Una volta evidenziata la profonda diversità che intercorre tra i due concetti di “antropocentrismo”, il problema può essere correttamente reimpostato nei seguenti termini: riconosciuto che il nostro essere nel mondo non può che essere l’essere nel mondo con le nostre caratteristiche cognitive e valutative, è possibile proporre ed attuare un tipo di rapporto con gli animali diverso da quello fondato sulla nostra (supposta) superiorità?
La risposta implica la distinzione tra la genesi dell’etica, intesa come individuazione di valori, e l’ambito di attribuzione di valori. Dato come assunto che la genesi dell’etica umana si attua sempre a partire dalla coscienza umana (c.d. tesi antropogenica del valore), da ciò non consegue necessariamente che l’etica debba riguardare esclusivamente soggetti umani (c.d. teoria antropocentrica del valore): l’uomo è sì il creatore dell’etica, così come di ogni altro sistema di valori, ma queste creazioni non devono essere necessariamente antropocentriche nel senso di dirette esclusivamente all’interesse dell’uomo, bensì possono estendere la considerazione morale anche ad altri soggetti.
Appare pertanto possibile – nel senso di “naturalmente” possibile, ossia compatibile con la nostra specificità umana di essere nel mondo – promuovere il superamento della c.d. ossessione dell’unicità umana, del modello antropocentrico tradizionale.
In questo senso, allora, il Great Ape Project costituisce un primo passo nell’ampliamento dell’estensione dei soggetti ai quali riconosciamo valore intrinseco, una sorta di “testa di ponte” gettato tra l’uomo e gli altri animali: riconoscere che le antropomorfe hanno dei diritti fondamentali ci aiuterebbe a renderci conto che la differenza tra noi e gli altri animali è tutta una questione di grado e ciò potrebbe portare a un miglior trattamento di tutti gli animali.
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