8 euro al giorno per risarcire il trattamento non proprio umano riservato ai carcerati. E’ quanto alcuni tribunali italiani hanno cominciato a sentenziare, da inizio anno, a carico del ministero della Giustizia, colpevole di non aver preso alcun provvedimento per rendere meno degradanti le condizioni di vita nelle galere di casa nostra, soprattutto dopo la “sentenza Torregiani” di gennaio 2013, gli ammonimenti comunitari e il decreto legge numero 92. Un vero “miracolo”, le prime sentenze, perchè a quanto pare le solite burocrazie e i pasticci legislativi sono dietro l’angolo per vanificarne la portata e, ancor più, una reale “umanizzazione” della vita dietro le sbarre sembra una irraggiungibile utopia.
Ma vediamo, più in dettaglio, cosa succede. Milano. La decima sezione civile del tribunale meneghino ha condannato a febbraio il ministero di via Arenula a sborsare 1.568 euro in favore di un detenuto per 198 giorni nel carcere di San Vittore in condizioni definite “inumane e degradanti”. La cella nella quale è stato rinchiuso, scrivono le toghe milanesi, risultava “sovraffollata”, e “lo spazio pro capite inferiore al limite minimo di tre metri quadrati”. Al detenuto, passato anche per Opera e Bollate, verranno pagati anche interessi legali e spese processuali.
Lecce. Nello stesso mese il tribunale locale ha preso un analogo provvedimento, condannando lo Stato a risarcire con 1.800 euro un detenuto per 225 giorni (tra il 2011 e il 2012) nel carcere di Taranto, sempre in condizioni considerate non umane. “Il cosiddetto spazio vitale – è scritto nella sentenza – a disposizione del soggetto è stato superiore ai tre metri quadrati solo per due giorni, quando nella cella vi era pure un altro detenuto, mentre lo stesso è stato inferiore ai tre metri quadrati in tutti gli altri periodi”.
Napoli. Sempre a febbraio si è pronunciata la quarta sezione civile del tribunale partenopeo. Molto più alto il risarcimento, pari ad oltre 10 mila euro, per un detenuto che ha trascorso 1.267 giorni in una dei carceri storicamente più affollati e meno ‘ospitali’ d’Italia, Poggioreale, dove – viene precisato nella sentenza – “lo spazio pro capite risultava inferiore al limite minimo di tre metri quadrati”. Ma ecco qualche dettaglio in più sugli standard ricettivi dell’hotel Poggioreale: “le celle misuravano in totale, escluso il bagno (privo di doccia), 25 metri quadrati con altri 12 detenuti senza contare il mobilio”; i carcerati, poi, “potevano godere solo di un’ora di aria alla mattina e una nel pomeriggio”; e la pennellata finale: “le celle erano progettate per una sola persona ed erano condivise con altri”. Il dato-base, in questo caso, resta comunque quello dei “25 metri quadrati per 12”, il che significa qualche centimetro in più di 2 metri a testa, ben al di sotto del minimo previsto dalla Ue per considerare una detenzione entro le soglie della cosiddetta ‘umanità’.
Proprio ora che qualcosa, comunque, nel deserto più totale si sta faticosamente muovendo, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) getta acqua su ogni fuocherello e minimizza: la situazione del sovraffollamento è ormai superata e le sentenze si riferiscono agli anni passati. Ecco le loro parole: “l’Amministrazione Penitenziaria attualmente stabilisce la capienza regolamentare secondo i parametri calcolati in base del Decreto ministeriale della Sanità 5 luglio 1975 (41 anni fa!, ndr), per il quale la superficie delle celle singole non può essere minore di 9 metri quadrati, mentre per le celle multiple sono previsti 5 metri quadrati aggiuntivi per ciascun detenuto. Con i miglioramenti apportati nell’ultimo anno – prosegue il DAP – il 95 per cento dei detenuti è in ‘custodia aperta’ e trascorre tra le otto e le dieci ore in spazi comuni, fuori dalle camere di pernottamento, impegnati in attività trattamentali e di sostegno”. Non basta, perchè – viene aggiunto – “la custodia aperta progressivamente si sta estendendo anche ai detenuti dell’alta sicurezza”. Insomma, una vera pacchia, trattamento da cinque stelle.
L’attuale normativa (post legge Torreggiani) prevede – spiega un penalista romano – “per i detenuti che stanno ancora scontando la pena, la riduzione di un giorno di pena per ogni dieci giorni durante il quale è avvenuta la violazione del loro diritto ad uno spazio e a condizioni adeguate, mentre per coloro i quali abbiano già terminato il periodo di detenzione e facciano ricorso, un risarcimento di 8 euro al giorno”. Aggiunge un penalista partenopeo: “queste prime sentenze ci devono incoraggiare, perchè il muro di gomma comincia a mostrare qualche crepa. Prendiamo Poggioreale: quasi tutti i detenuti sono in quelle condizioni, con spazi del tutto insufficienti e condizioni che definire umane è impossibile. Quindi quel risarcimento andrebbe riconosciuto praticamente a tutta la popolazione carceraria di Poggioreale, non c’è possibilità di equivoco. Andrebbe fatta una sorta di class action, perchè sappiamo che invece il singolo detenuto spesso non ha i mezzi economici né di altro tipo per muovere nemmeno un dito, e non è in grado di dimostrare, come richiesto per legge, il trattamento disumano al quale viene sottoposto”.
MA PER IL DAP “IL TREND SI INTENDE ESAURITO”…
Per districarci nella giungla, leggiamo cosa scrive ancora il DAP, a proposito dei risarcimenti appena decisi da alcuni tribunali italiani. Fanno “tutti riferimento al passato”, viene sottolineato, e “si evince che, dei 1617 ricorsi presentati, non risultano ancora esaminati dalla magistratura ordinaria 1276 ricorsi, solo 126 sono stati accolti mentre 215 sono stati rigettati o comunque non accolti per motivi procedurali”. E ancora, a proposito della normativa vigente basata sulla legge 26 di giugno 2014: “ha previsto il termine di sei mesi per la proposizione del ricorso risarcitorio, decorrenti dalla cessazione dello stato detentivo o della custodia cautelare in carcere; ciò significa – argomentano al DAP – che il trend si intende esaurito. Inoltre, dal rapporto annuale della Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo, è emerso come il numero dei ricorsi italiani sia pari all’11,6 per cento del totale dei casi pendenti alla Corte di Strasburgo per i 47 stati membri del Consiglio d’Europa e che un numero così basso di ricorsi italiani non si registrava dal 2009. Le condanne riguardati l’Italia sono state appena 20 a fronte di un totale complessivo per tutti gli Stati membri di 692”.
Rose e fiori, dunque, nel Belpaese – stando al DAP – sulla condizione carceraria e il basso tasso dei ricorsi, il cui flusso, addirittura, si sarebbe stoppato. Possibile mai? Non è vero forse proprio il contrario? Per capirci qualcosa è necessario fare un passo indietro, proprio al 2014, quando questa “umanitaria” normativa è stata approvata. Leggiamo alcuni report tratti dal “Redattore Sociale” – un sito di controinformazione sui diritti negati – di fine 2014. “Oltre 18 mila – scriveva Dario Paladini – le istanze presentate: quasi tutte le 7.351 esaminate sono state dichiarate inammissibili per carenza di documentazione. Su cui però non c’è alcuna indicazione certa. Questa storia ha il sapore di una beffa, verso i detenuti italiani e verso l’Unione Europea”. Come mai una tale montagna di istanze dichiarate ‘inammissibili’? Ecco la spiegazione secondo il Redattore Sociale: “La risposta è contenuta in un documento del ministero di Grazia e Giustizia, che riporta i dati del lavoro di 54 dei 58 uffici di sorveglianza: ‘La maggior parte delle istanze è stata definita per inammissibilità non in quanto non meritevole di trattazione, ma solo in quanto non opportunamente documentata dai detenuti e si sta già creando un flusso di impugnazioni di tali decisioni verso la Corte di Cassazione’. In altri termini, i detenuti non sono stati in grado di dimostrare che hanno vissuto in celle sovraffollate. Il problema sta nel fatto che non sono state ancora definite con precisione le procedure e la documentazione per ottenere il risarcimento e quindi ogni tribunale di sorveglianza agisce come meglio crede”.
Ma anche alcune toghe di casa nostra, un anno e mezzo fa, cominciavano a lanciare un primo sos. E’ di metà novembre 2014, infatti, un documento redatto dal Conams, ossia il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, inviato al guardasigilli Andrea Orlando per denunciare che “a causa delle incertezze e lacune nel testo normativo, dei gravi contrasti giurisprudenziali, delle complessità delle istruttorie e della assoluta inadeguatezza delle risorse e dei mezzi di cui dispongono gli Uffici di sorveglianza, è facile prevedere che sarà molto esiguo il numero dei casi decisi e risolti secondo gli standard prescritti dalla Giustizia europea in termini di effettività, rapidità ed efficacia dei rimedi accordati”. In particolare, il Conams chiedeva lumi al ministero di via Arenula circa “l’interpretazione da dare all’articolo 35 e all’articolo 69 dell’ordinamento penitenziario”, i quali prevedono che il risarcimento possa esserci solo quando “il pregiudizio è attuale e grave”. Ma chi interpreta la “scala” di “attualità” e soprattutto di “gravita”?, si chiedevano molti penalisti che già allora ravvisavano le falle normative e in particolare il pericolo che – come al solito – dietro la consueta farraginosità e imprecisione formale si potesse annidare (come è successo) la precisa “non volontà” politica di intervenire in modo chiaro in una materia tanto incandescente. Per fare un solo esempio, non pochi legali si chiedevano: “se adesso un detenuto si trova in condizioni appena migliori, non può più chiedere il risarcimento per gli anni passati?”. Sono trascorsi i mesi, il groviglio normativo non si è sciolto, dal ministro Orlando nessun chiarimento; ma per fortuna qualche ricorso comincia a trovare accoglimento nella aule di giustizia. “C’è da sperare che non siano mosche bianche – osservano all’associazione Antigone – ma l’inizio di una marea montante: perchè lo Stato impari una volta e per tutte che i diritti non si calpestano impunemente. Sappiamo che però da quell’orecchio lo Stato è regolarmente sordo”.
LE ULTIME DRAMMATICHE CIFRE DEI GIRONI CARCERARI
Del resto le ultime cifre sulla situazione carceraria parlano da sole. 52 mila 475 i reclusi nei 195 penitenziari del nostro Paese, secondo stime aggiornate a gennaio 2016. Praticamente 1 su 2 è straniero (il 45 per cento), il 38 per cento senza fissa dimora, il 5 per cento analfabeta. Solo l’1 per cento è laureato. I ‘colletti bianchi’ sono autentiche mosche bianche, proprio mentre in Italia dilaga la corruzione e i saccheggi alla casse dello Stato sono quotidiani. Nelle carceri si registra un tasso di suicidi 18 volte superiore rispetto alla media, la fetta di gran lunga maggiore della popolazione carceraria è “in attesa di giudizio”, l’eterna piaga di una giustizia che in Italia è ormai una remotissima chimera. Scrive l’autore di “La giustizia capovolta”, padre Francesco Occhetta: “Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69 per cento, vale a dire che dei mille detenuti che escono ed entrano nelle carceri ogni giorno, circa 690 tornano a delinquere. Lo Stato spende solo 95 centesimi al giorno per l’educazione dei detenuti, rispetto ai 200 euro pro-capite previsti. Se soltanto la recidiva calasse dell’1 per cento, lo Stato risparmierebbe oltre 50 milioni di euro. Tra quasi 30 mila persone che stanno usufruendo delle misure alternative al carcere, il tasso di recidiva cala invece al 19 per cento”.
Dal girone infernale di Poggioreale arrivano le ultime, drammatiche notizie. “Un detenuto su quattro – denuncia Antigone – assume psicofarmaci”. E un rapporto aggiornato, anche in questo caso, a gennaio 2016, snocciola dati da brivido. “463 reclusi su 1992 – viene sottolineato – assumono ansiolitici, antipsicotici, antidepressivi o stabilizzanti dell’umore; tra queste persone 278 hanno una malattia mentale”. E precisano: “nell’istituto penale vive un carcere-manicomio che conta più pazzi, più del doppio di quanti ce n’erano nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano da poco dismesso”. E ancora: “la pratica della sommersione farmacologica della sofferenza svolge un ruolo decisivo nel mantenimento degli equilibri interni, perchè si fa ricorso alle medicine pur in assenza di una riconosciuta patologia psichiatrica”. Antigone, inoltre, sempre a proposito della situazione del carcere partenopeo, fa notare che “l’Asl non precisa quanti ammalati erano seguiti dai servizi psichiatrici territoriali prima di entrare in prigione, è un dato che non viene rilevato; mentre è ‘pari a zero’ il numero di pazienti ai quali è stata assicurata una continuità terapeutica al momento della reclusione”.
Pazzi, cioè si diventa, stando dietro le sbarre in quelle condizioni inumane, come succede in celle con spazi a detenuto di 2-3 metri nel migliore dei casi. E se sei un ‘piccolo’ delinquente, uno scippatore alle prime armi, puoi stare certo di uscirne da perfetto delinquente, dopo un’ottima e abbondante formazione professionale.
Ma per il Guardasigilli Alice-Orlando e Lorsignori no problem: tutto ok.
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