E’ la domanda da 1 milione di dollari che oggi più che mai assilla il mondo dei media entrati ormai nell’orbita dei social: con quale potere contrattuale? Ed è l’interrogativo intorno al quale ruota anche quest’anno lo stimolante intervento di Emily Bell tenuto all’università di Cambridge dal titolo: “La fine delle notizie come le conosciamo: come Facebook ha inghiottito il giornalismo” (l’anno scorso il tema era già: “Se Facebook mangia il New York Times”). Ecco alcuni passaggi salienti.
“Stiamo assistendo a grandi trasformazioni sul fronte del potere e dei finanziamenti, che stanno mettendo il futuro dell’editoria nelle mani di poche persone che oggi controllano il destino di molti. I social media non hanno fagocitato solo il giornalismo: hanno fagocitato ogni cosa, dalle campagne politiche al sistema bancario, alle nostre storie personali, al settore dell’intrattenimento, della vendita al dettaglio fino al governo e alla sicurezza”.
“Due cose importanti sono già successe senza che facessimo abbastanza attenzione. Gli editori nel settore dell’informazione hanno perso il controllo sulla sua distribuzione. Le aziende che sviluppano social media e piattaforme tecnologiche hanno realizzato quello che gli editori non avrebbero potuto costruire neanche se avessero voluto, prendendone di fatto il posto. Le notizie oggi sono filtrate da algoritmi e piattaforme poco trasparenti e non prevedibili. Le piattaforme e le aziende di social media più importanti, come Google, Apple, Facebook, Amazon, ma anche Twitter, Snapchat e le aziende di messaggistica istantanea emergenti, hanno acquisito un potere enorme di controllare chi-mostra-cosa-a chi, e nel monetizzare la pubblicazione. In questo senso oggi il potere è concentrato tanto quanto mai in passato. I network prediligono le economie di scala e i grandi numeri, e così la nostra cura minuziosa del pluralismo svanisce di colpo, mentre le dinamiche del mercato e le leggi antitrust su cui si fa affidamento per risolvere anomalie come questa stanno fallendo nel loro intento”.
Più direttamente, a proposito del ruolo di Big Facebook, ecco la significativa diagnosi di Bell. “Ogni giorno miliardi di utenti e centinaia di migliaia di articoli, foto e video sono pubblicati on line, e le piattaforme digitali devono ricorrere ad algoritmi per tentare di capire quali contenuti sono importanti, recenti e popolari, e stabilire chi-deve-vedere-cosa. E a noi non resta che fidarci: in realtà sappiamo poco o niente di come ogni rete classifica le notizie. Se Facebook, ad esempio, decidesse che i video funzionano meglio degli articoli, e vanno promossi di più, noi non potremmo scoprirlo, a meno che Facebook non scelga di dircelo o che non lo capiamo da soli. E’ un settore non ancora regolato e i metodi di lavoro di questi sistemi non sono trasparenti”. Forse questo non succederà, almeno per ora, visto il precedente di Wikipedia, il cui fondatore, Jimmy Wales, poche settimane fa ha fatto autocritica: “pensavo che nel futuro dell’enciclopedia ci fossero molti più video e meno testi. Sbagliavo. Almeno per ora”.
Ma continuiamo a seguire il filo del ragionamento della docente alla Columbia: “Il fatto che una classe di persone tecnicamente capaci, con coscienza sociale, successo finanziario e grande energia come Mark Zuckerberg stia appropriandosi delle funzioni e del potere economico dei vecchi guardiani compassati, arroccati politicamente, e a volte corrotti a cui eravamo abituati in passato, porta grandi vantaggi. Ma dobbiamo essere consapevoli della profondità di questo cambiamento culturale, economico e politico. Stiamo cedendo il controllo di parti importanti della nostra vita pubblica e privata a una manciata di persone che non sono state elette per questo e non rispondono del loro operato”. E ancora: “Abbiano bisogno di norme che garantiscano che tutti i cittadini abbiano pari accesso alle reti di opportunità e servizi di cui hanno bisogno. Dobbiamo poter essere sicuri che tutti i discorsi e le espressioni pubbliche siano trattate in modo trasparente, se non è possibile trattarle in modo uguale. Sono precondizioni essenziali per una democrazia che funzioni. Affinchè questo accada bisogna almeno essere d’accordo sul fatto che i responsabili in questi settori stanno cambiando. Chi ha fondato queste piattaforme non è partito con l’idea di sostituirsi alla stampa libera, ma anzi è preoccupato all’idea che questo possa diventare il risultato del loro successo tecnologico. Oggi a queste società viene contestato di aver privilegiato con cura i settori più redditizi del processo editoriale e di aver trascurato il business più costoso della creazione del giornalismo di qualità. Se esperimenti nascenti come Instant Articles porteranno a una maggiore integrazione con il giornalismo, potremo assistere a un cambiamento significativo dei costi di produzione, soprattutto in termini di tecnologia e vendita di spazi pubblicitari”.
Eccoci allo scenario prossimo venturo, nella più che realistica ricostruzione effettuata dall’ex numero uno del Guardian digitale. “Il nuovo processo di mediazione dell’informazione – che una volta si pensava sarebbe diventata totalmente democratica grazie all’evoluzione del web aperto – probabilmente peggiorerà i meccanismi di finanziamento del giornalismo, prima che riesca a migliorarli. Se si considerano gli scenari futuri della pubblicità e gli aggressivi obiettivi di crescita che Apple, Facebook, Google e le altre società devono soddisfare per appagare Wall Street, è probabile che – a meno che le piattaforme social non decidano di destinare molti più soldi alla fonte – produrre notizie diventi un’operazione senza fini di lucro, piuttosto che un motore del capitalismo. Per essere sostenibili, le nuove società di news e di giornalismo dovranno ora modificare radicalmente i loro investimenti. Molto probabilmente la prossima infornata di società di news fonderà le proprie attività sulla distribuzione di storie, talenti e prodotti su diversi dispositivi e piattaforme. Mentre questa transizione è in corso, la pubblicazione di contenuti giornalistici direttamente su Facebook e altre piattaforme diventerà la regola, invece che l’eccezione. Anche l’attività di aggiornamento di un sito web potrebbe venire abbandonata in favore di un’iperdistribuzione. La distinzione tra piattaforme ed editore sarà definitivamente superata. Per quanto si pensino soprattutto in veste di società tecnologiche, i grandi gruppi di cui abbiamo parlato prendono decisioni fondamentali anche per molti altri campi come l’accesso alle piattaforme, la fisionomia del giornalismo e del dibattito, l’inclusione o la censura di determinati contenuti o di diversi editori. Il destino degli editori tradizionali è una questione molto meno importante rispetto al tipo di società informata che vogliamo creare e a quale sia il modo per costruirla”.
Forse meglio rifugiarsi e vivere nella “virtual reality” e dentro un “dream” generato dal nostro “Oculus” quotidiano: caso mai dal titolo “As Facebook swallows our lives” (“Come Facebook inghiotte le nostre vite”)…
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