Scandalo Guidi-Gemelli, tsunami su un esecutivo già pesantemente coinvolto nel crac delle 4 banche, via Boschi. Ora il petrolio della Basilicata, con diramazioni tentacolari fino in Puglia e in Sicilia, nella maglie perfino il capo di Stato Maggiore della Marina Militare, Giuseppe De Giorgi. In un paese normale – e non in una repubblica della Banane marce – da “ieri” sarebbero tutti a casa: in Germania un presidente si dimette per aver copiato un capitolo della tesi di laurea, in Inghilterra un ministro per non aver pagato tre mesi di contributi alla colf e da noi? Basta la Guidi. Per il resto tutti immacolati, viole mammole vittime di un complotto, dei poteri forti. Intanto in Libia scoppia “la pace” – già supertraballante – provocata proprio dai maxi accordi di spartizione dell’oro nero…
Ma è poi solo “politico” lo tsunami di casa nostra? O non dovrebbe colpire anche gli intoccabili Palazzi del potere economico e finanziario? Come mai tutti zitti e muti di fronte alle
macroscopiche responsabilità del gruppo Eni, coinvolto fino al collo nel massacro ambientale scientificamente perpetrato ai danni dei cittadini? Come mai nessuno chiede il logico, fisiologico commissariamento dei vertici del colosso petrolifero pubblico, di fronte a una vergogna del genere? Come mai nessuno punta l’indice contro i numeri uno passati e presenti, rispettivamente Paolo Scaroni e Claudio Descalzi? E come non tener presente che l’Eni e una sua controllata (o appena ex), come il big dell’impiantistica Saipem, sono sotto inchiesta per “corruzione internazionale” in mezzo mondo, a partire dal super scandalo carioca Petrobras che sta per provocare l’impeachment del capo dello stato verdeoro Dilma Roussef, la presidente-prestanome del “progressista” (sic) Ignacio Lula da Silva?
I DISASTRI SCIENTIFICI IN BASILICATA
Procediamo con ordine e partiamo dalle attuali, pesantissime accuse che i pm potentini stanno raccogliendo sui comportamenti non solo omissivi, ma anche attivi di Eni nel business petrolifero che si trasforma anche in un vero attentato all’ambiente e soprattutto alla salute pubblica.
Racconta il Corsera in un servizio dell’inviata Virginia Piccolillo: “lo sapevano tutti da anni su quelle colline incantate della Val d’Agri, bucherellate da decine di pozzi di petrolio, che quel puzzo di zolfo poteva non essere salutare. Ma lo avevano preso per pazzo il poliziotto, Giuseppe Di Bello, che per primo denunciò che i veleni di scarto dell’oro nero lucano non venivano trattati da rifiuti pericolosi, come nel resto del mondo civile, ma finivano, in parte, in miasmi esalati in grandi fiammate o nei ruscelli e nelle acque di falda che irroravano il lago del Petrusillo. Il più grande rubinetto di acqua potabile a disposizione della Puglia e di una parte della Calabria e della Basilicata. A migliaia morivano i pesci”. E potrebbero morire uomini e donne. Sembra il copione di un horror movie; invece è un copione ormai “consueto” nel martoriato sud, alle prese con orrende connection politico-imprenditorial-mafiose sulla pelle della gente: come è successo nella Terra dei Fuochi o come documentano tante altre inchieste iniziate e regolarmente morte di prescrizione (sta per avvenire con la “Chernobyl” che riguarda Campania e ampie fette di Sud, e pezzi da novanta che al solito la faranno franca, alla faccia della giustizia uguale per tutti).
Il disastro della Basilicata – lo stanno accertando i pm, prove documentali alla mano – avveniva sotto gli occhi dell’Eni, che ne era perfettamente consapevole e continuava nel suo business sulla pelle degli ignari cittadini. Non solo: ma l’Eni, di fronte alle prime contestazioni come quelle di Giuseppe Di Bello, o di alcuni comitati rompiscatole, passava al contrattacco, caso mai facendo passare per “pazzo” il Di Bello di turno, gettando vagonate di acqua per spegnere i primi incendi e rassicurando il popolo bue. Così diramavano nei loro comunicati i vertici del colosso petrolifero: “Lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il Centro Olio di Viggiano, è ottimo secondo gli standard normativi vigenti”. Uno stato di cose del tutto smontato e smentito dagli esperti del Noe, che invece ha calcolato nella bellezza di 850 mila tonnellate la quantità di acque miste a veleni reimmesse nei terreni lucani, solo in un anno (da settembre 2013 a settembre 2014). Super milionari gli utili incamerati da mamma Eni, sia attraverso risparmi bypassando regole e controlli, sia frodando sui codici dei rifiuti pericolosi: tecniche che, solitamente, utilizza la criminalità organizzata. Ma quando ricorrono a tali espedienti i colletti bianchi di un mega ente di Stato, cosa succede? Niente. Almeno fino all’inchiesta dei coraggiosi inquirenti potentini.
Altro capitolo, quello delle “fiammate”: da far diventare rossi per la vergogna. Ma i vertici Eni se ne fregavano abbondantemente. Ecco cosa racconta un esperto di impianti petroliferi: “si registravano regolarmente malfunzionamenti negli impianti, segnalati automaticamente via sms ai responsabili dell’Arpa, che a sua volta li girava immediatamente ai tecnici Eni. I quali, però, la prendevano con molta calma…”. Ecco lo stralcio di una telefonata non poco istruttiva: “la lasciamo aperta fino a data da destinarsi (….) ci inventiamo una motivazione perchè non conviene scriverlo (….) troppe anomalie poi (….) niente, facciamo il solito, la solita manovra (….) mi si è gelato il sangue addosso…”.
Gli inquirenti ora sono in attesa dei dati epidemiologici, per capire e quantificare i danni prodotti sulla popolazione, visto che del resto uno dei capi d’accusa pesa come un macigno: “disastro ambientale”. “E sorgerà il solito interrogativo – nota un avvocato del foro di Potenza – si tratterà di disastro solo colposo o doloso? Mi pare che alcune recenti sentenze, proprio in materia di disastri ambientali, possano far propendere per questa seconda ipotesi: e cioè se i vertici aziendali erano consapevoli di poter far disastri e non hanno adottato tutte le precauzioni per evitarli. Se poi se ne sono fregati e hanno puntato solo ai guadagni, il quesito dovrebbe essere di facile risoluzione”.
Le prime avvisaglie dell’affaire e di strani giochi si ebbero già oltre una ventina d’anni fa in una Val d’Agri diventata, improvvisamente, ombelico d’Europa per via degli importanti giacimenti petroliferi scoperti e subito, ovviamente, entrati nel mirino di Eni e compagnie anche estere (come il caso Total e anche la vicenda Shell dimostrano). E già allora – lo documentò la Voce – si faceva cenno a grossi interessi politici, soprattutto in casa dell’allora Pds-Ds, sotto l’impero di D’Alema Maximo. Storie già allora popolate di appalti, subappalti, colletti bianchi, società d’ingegneria, perchè la torta – c’era un forte, primo sentore, poi confermato dagli sviluppi degli anni successivi – era abbondante e ghiotta.
CORRUZIONI INTERNAZIONALI IN MEZZO MONDO
Ma torniamo ai giorni nostri. E agli altri maxi scandali nei quali l’Eni è coinvolta fino al collo: senza che i media dedichino un rigo ad una notizia del genere. Timori d’un crollo in borsa del titolo? Paura per le sorti di Saipem che è appena uscita dall’ombrello di mamma Eni e cerca faticosamente (il suo titolo ha perso oltre la metà del suo valore) un aumento di capitale? O timori per i contraccolpi che potrebbero procurare tutti questi “bubboni” nel lancio del nome di Paolo Scaroni, ex re di Eni, per il futuro dell’Ilva in fase di privatizzazione, con un gruppo Marcegaglia nel motore? Forse un mix.
La tegola più pesante è indubbiamente quella per lo scandalo Petrobras, che sta travolgendo il governo carioca e provocando l’impeachment del presidente fantoccio Dilma Roussef, che ha cercato di salvare il suo protettore Lula nominandolo super ministro ombra, tanto per evitargli la galera: manovra sventata dagli inquirenti. La Tangente del secolo, la più grande di sempre, quella verdoro divisa tra il partito dei Lavoratori (sic) e l’opposizione, e i tre quarti del parlamento con le mani nella marmellata: l’importo è di 3 miliardi di euro accertati e potrebbe raggiungere la stratosferica cifra di 25 miliardi. Regia nelle mani del colosso petrolifero locale Petrobras, nel cui consiglio d’amministrazione – ai tempi dell’affaire – sedeva la poi presidente Roussef. Sponda sul fronte di lavori & appalti, la nostra Saipem, che non è solo indagata dalla magistratura brasiliana impegnata nell’inchiesta “Lava Jato”, un po’ la Mani Pulite carioca, ma anche da quella milanese per “corruzione internazionale”.
E sempre a Milano sono radicate altre due indagini non meno pesanti, e sempre per “corruzione internazionale”, la facile via per ottenere appalti in cambio di mazzette alla classe politica locale che si lascia comprare senza frapporre grandi ostacoli. Così è capitato in Nigeria (due i filoni d’inchiesta), dove le mazzette sono state addirittura travestite per “spese culturali”; e lo stesso copione è andato in scena in Algeria, come la Voce ha documentato mesi fa in alcune inchieste. Eni e Saipem, di volta in volta, coinvolte; e nel caso brasiliano con un partner d’eccezione, la Techint che fa capo al gruppo Rocca, già leader in Argentina con il colosso Tenaris.
Una battuta d’arresto, per Gianfelice Rocca, l’elezione del salernitano Vincenzo Boccia, nel suo progetto di scalata al Corriere della Sera in attesa di un nuovo padrone: grazie alla sponda “Vacchi”, infatti, avrebbe avuto maggiori chance il matrimonio – caldeggiato da Rocca – tra Corsera e Sole 24 Ore. Per ora Rocca si concentra sull’altro maxi business meneghino: l’Human Technopole nell’area Expo, il fiore all’occhiello che – bypassando regole, bandi pubblici e prassi di ogni paese civile – Renzi intende regalare ad un gruppo ben selezionato di big dell’impresa nazionale ed estera, come il recente viaggio Usa ha inteso confermare.
Per finire, dall’Algeria – terra di conquista per Eni – alla Libia il passo è breve. Dove il neo presidente arriva dal mare, con un gommone (sostituisce l’auto) blu che l’ha proiettato – mai eletto ma voluto da Usa e codazzo occidentale – sul trono ancora sanguinante della Libia (o meglio, di una sua fetta, in attesa di un controllo man mano maggiore). La ragione? Il petrolio, che continua a tener banco – nonostante tutte le energie rinnovabili del mondo – nelle agende delle nostre economie e delle nostre finanze quotidiane. Primi incontri di Fayez Al Serray, infatti, con il governatore centrale della banca libica, Saddek Elkaber, e con i vertici della “Petroleum Facilities Guard”, la “guardiana, appunto, dell’oro nero; poi con quelli della consorella “National Oil Corporation”. Del resto, gli immensi profitti petroliferi libici sono disseminati in mezzo mondo, sparsi tra una decina di colossi bancari e svariate dozzine di big pubblici e privati (solo da noi Finmeccanica, Unicredit, Fiat, Enel e, appunto, Eni; negli Usa, sul fronte energetico, Mobil, Exxon, Chevron, Halliburton).
Poi ci si chiede ancora chi ha ammazzato Gheddafi e perchè…
PER APPROFONDIRE:
SCANDALO PETROBRAS / LULA SI NOMINA CAPO GABINETTO E “SCAPPA”. DA NOI OSCURAMENTO SULLE MAZZETTE SAIPEM E TECHINT – 17 marzo 2016
LULA NEL CICLONE PER LE SUPERTANGENTI PETROBRAS / MA DA NOI SAIPEM E TECHINT NON SI TOCCANO – 4 marzo 2016
LA MAXI CORRUZIONE DELLA BRASILIANA PETROBRAS / DENTRO SAIPEM E MONTE DEI PASCHI DI SIENA – 26 novembre 2015
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