Ha decretato la morte della Voce. E ora, non contento, cerca di colpirla una seconda volta.
Massimo Marasca, magistrato oggi al tribunale di Civitavecchia, era precedentemente in servizio a Sulmona dove, nel 2013, ha firmato una sentenza “civile” a carico della cooperativa editrice e del suo direttore, con una condanna record a 92 mila euro di risarcimento danni. Adesso vuole citare in giudizio la Voce, chiamandola ad una “mediazione”, la prassi che sta privatizzando i brandelli della Giustizia in Italia.
Si sente offeso “nell’onore e nella reputazione” da un articolo di un anno fa, aprile 2015, che riassumeva per sommi capi la storia dell’incredibile condanna, e da una domanda inoltrata al Csm, al ministro della Giustizia, alla Procura generale della Cassazione, e per competenza alla Procura di Campobasso, con la richiesta di verifica, l’estremo diritto che la Costituzione assegna a un condannato. Domanda che la Procura di Campobasso ritenne tanto fondata da decidere autonomamente di aprire un fascicolo sulla vicenda, mentre contemporaneamente l’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, presidente del Csm, comunicò di aver trasmesso gli atti al Consiglio Superiore per le opportune valutazioni.
La Voce crocifissa per l’ennesima volta nei giorni di Pasqua. Non solo è stata costretta a chiudere dopo 30 anni di giornalismo d’inchiesta anticamorra da questa giustizia “civile”, ma l’autore materiale della sua “esecuzione”, fidando evidentemente sulla sua “alta” posizione di magistrato che sarà giudicato da un suo collega, ora dichiara di sentirsi leso nell’onore per il solo motivo che “osiamo” opporci alla sua decisione con gli strumenti che il diritto ancora ci fornisce. E sono due: il diritto-dovere di cronaca, in base al quale abbiamo scritto articoli per documentare quanto è stato fatto “in nome del popolo italiano”, ricostruendo per filo e per segno, carte e documenti alla mano, l’intera, paradossale vicenda; e il diritto di appellarci a giudici superiori, come sono il Csm, il ministero della giustizia e la Procura generale della Cassazione.
Osserva il Sig. Marasca: il tribunale di Campobasso mi ha prosciolto. Non sono stati trovati riscontri oggettivi alle ipotesi di abuso d’ufficio e omissione d’atti d’ufficio.
Ma quelle ipotesi non le avevamo avanzate noi, che inoltravamo una semplice richiesta di chiarimenti. Lo aveva invece fatto, in maniera del tutto autonoma, il pubblico ministero di Campobasso Francesco Santosuosso, poi dopo pochi mesi trasferito, con la conseguenza che il fascicolo era passato ad un altro pm (che ne ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione).
Il nuovo pm e il gip non hanno riscontrato fatti e circostanze penalmente rilevanti?
Sappiamo bene cosa questa espressione intenda, e lo sa ormai tutto il Paese del poveri Cristi rimasti senza giustizia: può essere tranquillamente oltrepassata ogni regola di ordine morale, etico, professionale, deontologico, basta affondare la lama restando sempre al limite del codice penale. Specie se tali comportamenti non sono attuati da un qualunque rappresentante dello Stato, ma da chi veste la toga. E apriori sa che sarà giudicato dai colleghi della stanza accanto.
Ma noi continueremo, in ogni sede e in ogni occasione, a documentare tutte le abissali anomalie che hanno caratterizzato quel processo di Sulmona.
L’articolo che ha originato la “querelle” riguardava l’ormai celebre esame di maturità di Cristiano Di Pietro, figlio dell’ex toga di Mani pulite e fondatore dell’Italia dei Valori. La notizia era già ampiamente uscita sui quotidiani, ma ne scrisse sulla Voce, a ottobre 2008, Alberico Giostra, giornalista Rai, usando uno pseudonimo.
Dopo un anno – come fulmine a ciel sereno – arriva una lettera di Annita Zinni, insegnante di Montenero di Bisaccia, residente a Sulmona e amica storica della famiglia Di Pietro. Zinni dichiara di sentirsi diffamata da venti righe dell’articolo in cui si parla en passant di lei. Chiede 40 mila di risarcimento danni.
Non ci dà nemmeno il tempo di rispondere, perché negli stessi giorni presenta sotto casa, al tribunale di Sulmona, una citazione civile in cui spara a zero contro la Voce. Perché – dice – ha “subito un patema d’animo transeunte” che in quel periodo l’ha costretta a casa, impossibilitata a svolgere il suo lavoro, a far politica con Idv… Sono gli stessi mesi in cui tutte le popolazioni d’Abruzzo vivono la devastante esperienza del terremoto di aprile 2009. Case sventrate, morti ovunque, vite lacerate da lutto e macerie. L’anziana insegnante si rimette presto in forma, tanto che a luglio 2010 viene eletta per acclamazione segretario Idv in una sede ben più impostante: L’Aquila del post terremoto.
Ma per il giudice che esamina il caso, Massimo Marasca, il “patema d’animo” della Zinni non derivava dall’avere vissuto come tutti i suoi concittadini la terribile esperienza del sisma, bensì dalle 20 righe dell’articolo di Giostra. E le assegna non i 40mila euro richiesti nella lettera, bensì più del doppio: oltre 90 mila euro. Sentenza provvisoriamente esecutiva.
Comincia la flagellazione. Bombardato dai pignoramenti della Zinni, il giornale dopo trent’anni chiude battenti. Bloccati i conti correnti, impedita ogni attività da parte della piccola cooperativa editrice che viene colpita (come il suo direttore responsabile) da decine di atti esecutivi in ogni sede della vita pubblica e privata, fino alla richiesta di vendita all’asta (ottenuta) della testata stessa.
L’obiettivo finale di ridurre in schiavitù i giornalisti che avevano osato nominare una vicenda riguardante l’ex magistrato Antonio Di Pietro è stato ottenuto. Lo hanno capito bene le testate indipendenti rimaste vicine alla Voce nel suo calvario, da Ossigeno per l’Informazione ad Antimafia Duemila e Articolo 21. Tutti consapevoli di quello che si è voluto indicare agli altri massacrando impunemente il giornalismo anticamorra della Voce: è finita. E’ finita per noi, certo. Ma è finita per tutti. L’ossequio servile alla magistratura – anche a quella parte collusa coi poteri mafiosi – dovrà d’ora in poi essere la prima regola da insegnare nelle scuole di giornalismo. Altrimenti si rischierà di “fare la fine della Voce”.
Non dobbiamo ricordarlo noi, ma lo facciamo: un Paese in cui è stato umiliato il diritto dei cittadini ad essere informati è quello in cui la popolazione è già in ostaggio, vittima di un golpe silente, del quale la nostra vicenda, immeritatamente, segna l’atto finale.
Sappiano, quei magistrati che hanno imposto un simile regime totalitarista, che per quanto alta sia oggi la loro arroganza, per quanto impunibile risulti adesso il loro predominio assoluto, in questo stesso sciagurato Paese dovranno continuare a vivere i loro figli. Cui sono state sottratte le libertà fondamentali ed i diritti umani, quelle stesse regole della Carta Costituzionale per la cui affermazione tanti hanno pagato con la vita e che oggi loro senza pudore calpestano.
Non resta niente. Ma altissime suonano le parole scritte da Papa Francesco e pronunciate ieri sera al cospetto del mondo, durante la Via Crucis urbi et orbi:
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei dottori della lettera e non dello spirito, della morte e non della vita, che invece di insegnare la misericordia e la vita, minacciano la punizione e la morte e condannano il giusto.
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei ministri infedeli che invece di spogliarsi delle proprie vane ambizioni spogliano perfino gli innocenti della propria dignità.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei cuori impietriti di coloro che giudicano comodamente gli altri, cuori pronti a condannarli perfino alla lapidazione, senza mai accorgersi dei propri peccati e colpe.
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Un commento su “Quei dottori della morte che condannano il giusto”