Nel Paese in cui una delle massime istituzioni nazionali come il ministero degli Interni emana un bando per giornalisti professionisti disposti a lavorare gratis, può anche accadere che un giudice, dopo aver condannato una testata, così determinandone la chiusura e la riduzione in miseria dei lavoratori, oggi proponga una causa civile per chiedere un risarcimento danni a quegli stessi giornalisti. Una storia ai confini della realtà. Eppure in pieno svolgimento.
Trent’anni in edicola e riconoscimenti anche dal Capo dello Stato per il servizio d’informazione svolto in terra di camorra, la Voce delle Voci è stata raggiunta dall’ennesima iniziativa giudiziaria piombata nelle scorse ore quale estrema – ma non ultima – azione connessa ad un articolo pubblicato nel 2008 sul mensile dal giornalista Rai Alberico Giostra. Il pezzo, una ricognizione fra le turbolenze in casa Italia dei Valori, riguardava fra l’altro l’esame di maturità di Cristiano Di Pietro, figlio di Antonio. Citati in giudizio dall’amica di famiglia dei Di Pietro Annita Zinni a Sulmona, dinanzi al tribunale di sua residenza, nel 2013 il direttore del mensile e la piccola cooperativa editrice furono condannati dal giudice Massimo Marasca, all’epoca in servizio a Sulmona e oggi a Civitavecchia, a risarcire la signora Zinni, menzionata nell’articolo di Giostra per l’aiuto che avrebbe dato a Cristiano, come già riportato da altri organi di stampa. Danni biologici, morali e materiali, quelli assegnati dal giudice Marasca alla Zinni, per quasi centomila euro, valutati sulla base dell’unica CTU affidata ad una psicologa sulmonese. Di qui la lunga serie di pignoramenti, tutti immediati ed esecutivi, per il protrarsi del giudizio di appello (tuttora in corso all’Aquila con lunghi rinvii) e per i due contestuali rigetti di richieste di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado. Tanto che nel frattempo due giudici dell’esecuzione, uno a Roma e l’altro a Napoli, attribuivano alla Zinni i modesti contributi spettanti al giornale, il primo, ed il secondo la facoltà di incassare il ricavato dalla vendita della storica testata, da qualche settimana affidata all’Istituto Vendite Giudiziarie di Napoli perché la metta all’asta insieme a televisori, lavatrici, arredi di negozi, auto, suppellettili, etc. di altri sfortunati cittadini partenopei.
QUANDO IL GIUDICE CHE TI HA CONDANNATO VUOLE ESSERE RISARCITO…
Oggi il colpo di grazia: il giudice Massimo Marasca chiede i danni ai giornalisti della Voce, avanzando una richiesta di mediazione civile (come impone la legge nella fase preliminare al giudizio), per giunta in una sede ritenuta dai legali della Voce incompetente: quella di Roma. Vale a dire lo stesso distretto di Corte d’Appello nel quale rientra Civitavecchia. Il giudice Marasca si lamenta per un esposto nel quale i giornalisti, dopo la sentenza di condanna a Sulmona, avevano rispettosamente chiesto alle autorità competenti (Procura generale della Cassazione, ministero della Giustizia, CSM e, per doverosa conoscenza, la Procura di Campobasso) di valutare l’opportunità di accertare se fosse stato deontologicamente corretto l’aver ascoltato nel giudizio di primo grado a Sulmona, come teste della Zinni, un vertice degli uffici giudiziari locali quale era il procuratore capo facente funzioni a Sulmona Aura Scarsella, che abitualmente operava con lo stesso Marasca, quest’ultimo in veste di gip, nell’ambito di delicate inchieste, tutte agli onori delle cronache. Dopo qualche mese i giornalisti furono informati che la Procura di Campobasso aveva aperto un fascicolo a carico del giudice Marasca, indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio. In seguito al trasferimento in altra sede del pm Francesco Santosuosso, cui era stato affidato, il fascicolo è passato poi ad un altro pubblico ministero, che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione.
Da qui prende le mosse il giudice Marasca per avanzare l’odierna richiesta di mediazione civile ai danni della Voce, aggiungendo inoltre di sentirsi diffamato per un recente articolo, pubblicato online, in cui venivano sintetizzati questi stessi fatti.
Se pure quotidianamente avvengono ormai da tempo nelle aule dei tribunali vicende a danno del giornalismo italiano, in spregio al ruolo costituzionale dell’informazione e alla memoria dei tanti cronisti che per esercitare questa professione nell’unico interesse del Paese hanno pagato con la propria vita, quanto sta accadendo alla Voce delle Voci, testata anticamorra sterminata per via giudiziaria, rappresenta forse il punto più basso del definitivo inabissamento dell’informazione in Italia. La pensano così alcuni giornalisti dalla schiena dritta, rimasti in piedi a testimoniare l’antica dignità di questa professione. In primis la redazione di Ossigeno per l’Informazione e il suo direttore Alberto Spampinato, che in questa surreale via crucis ha costantemente offerto supporto e solidarietà alla Voce. «La giurisprudenza di Strasburgo – dichiara in proposito Spampinato – ha sempre sanzionato i risarcimenti per diffamazione che, come in questo caso, impediscono a giornali e giornalisti di proseguire la loro attività, ma adesso con la vendita della testata si va ancora oltre e io credo che un giudizio di questo tipo dovrebbe suscitare l’attenzione di tutti i giornalisti e editori e di coloro che già tengono sotto osservazione un paese in cui la stampa è libera soltanto parzialmente».
E non tace Antimafia Duemila, coraggioso periodico di resistenza alle camorre di ogni genere, che nel commentare il caso Voce scrive: «L’enormità di una simile sentenza conferma che nel nostro Paese la libera informazione è sempre più bandita, “colpirne uno per educarne cento” resta il letit motiv più utilizzato per far tacere voci libere e indipendenti. Nella speranza che venga fatta giustizia, alla Voce l’abbraccio e la solidarietà di tutta la nostra redazione».
La notizia è stata rilanciata a gran voce anche dal decano del giornalismo italiano Franco Abruzzo e dalla redazione di Articolo 21.
IL VIMINALE ISTITUZIONALIZZA Il GIORNALISTA “A GRATIS”
Giornalisti 5 euro al pezzo. Tariffe da venditori di fazzoletti ai semafori per una marea di free lance e ragazzi di belle speranze nella giungla del precariato quotidiano. Ma ecco che una Luce squarcia il Cielo, il Messaggio celestiale arriva dal Viminale: avrai la fortuna di lavorare per un anno come giornalista professionista potendo interloquire con autorità nazionali e internazionali. Gratis. Quando si dice “Free Press”…
Non siamo su scherzi a parte, ma nelle ovattate stanze degli Interni, dove fervide menti hanno partorito la genialata del secolo: i giornalisti – bestie da soma – dovrebbero essere lieti e felici di lavorare per la gloria in una istituzione così prestigiosa come quella guidata, nel passato, da statisti del calibro di Antonio Gava ed Enzo Scotti, di Nicola Mancino e perfino Giorgio Napolitano; ed esaurito il plotone campano, in tempi più recenti del leghista Roberto Maroni fino ad approdare tra le braccia di Angelino Alfano. Di fronte alla cui figura tutti coloro i quali vivono di giornalismo devono inginocchiarsi in segno di gratitudine e rispetto: visto che dal Guardasigilli è arrivata la grande chance per la vita di molti, il lavoro “a gratis” che di questi tempi è l’ideale per tirare avanti e contemplare con filosofia i saccheggi delle casse pubbliche ad opera di onorevoli, senatori e lacchè della nostra repubblica delle Banane.
Commenta un sindacalista romano che ne ha potute osservare tante in questi anni che hanno visto la categoria dei giornalisti sempre più ridotta a carne da cannone. “E’ da anni che denunciamo in modo del tutto inutile il precariato ormai dilagante in tutte le redazioni. Questi editori taroccati stanno uccidendo quel poco che resta della carta stampata pagando poco o niente i collaboratori e free lance che ormai fanno i giornali, tranne le poche firme rimaste sul campo come fiori nel deserto. E dicono: ‘dovresti già essere orgoglioso di mettere la tua firma sul giornale’, altro che storie. Siamo ridotti a questo. Il caso del Viminale è la ciliegina sulla torta, l’emblema di una situazione giunta al suo acme paradossale: se un ministro si permette di fare addirittura un bando istituzionalizzando non solo il lavoro precario, ma una sorta di nero ‘a gratis’, vuol dire che siamo alla frutta. In qualsiasi Paese un ministro del genere avrebbe già rassegnato da ‘ieri’ le dimissioni”.
Ma c’è da stare certi: Angelino Alfano, che ne ha già passate diverse di bufere, anche giudiziarie, rimarrà avvitato alla sua poltrona. E più renzizzato che mai.
Vediamo comunque qualche “retroscena” dell’intera vicenda.
Da chi è partito, concretamente, il bando della vergogna? Da uno specifico Dipartimento che fa capo al Viminale, ossia il “Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione”, che ha pubblicato il 10 marzo sul proprio sito istituzionale una “Procedura comparativa per il conferimento a titolo gratuito di incarico di prestazione di lavoro autonomo occasionale per lo svolgimento delle attività di Comunicazione per le esigenze del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione”. La richiesta è indirizzata a giornalisti professionisti, “con esperienza lavorativa documentabile da almeno tre anni nel settore della comunicazione e dell’informazione maturata nell’ambito della Comunicazione istituzionale presso le Pubbliche amministrazioni e/o presso questa Amministrazione”. Rigorosi, inflessibili e selettivi al punto giusto, le Menti del Viminale. Che chiedono una serie di ulteriori “requisiti”: perfetta padronanza dell’inglese, capacità di studiare ed elaborare “forme innovative di comunicazione”, disponibilità a viaggiare all’estero (chissà se a proprie spese). Il massimo.
Vediamo a questo punto chi è al vertice di quel “Dipartimento”. Il responsabile si chiama Mario Morcone. Un signor nessuno, ma dal denso curriculum. 64 anni, casertano, comincia la sua carriera prefettizia all’ombra di Nicola Mancino: nel ’92, infatti, è capo della sua segretaria particolare proprio al Viminale. E’ poi prefetto in varie città italiane, tra cui Rieti e Arezzo. Quindi fine millennio coi botti: quelli del Kosovo, dove è tra gli inviati speciali con l’elmetto dell’Onu. Torna a Casa – il Viminale, of course – con l’inizio millennio, sulla poltrona di direttore generale del dipartimento di amministrazione civile. Ha la passione per il rischio e così per cinque anni, dal 2001 al 2006, va a capeggiare i Vigili del Fuoco. Brevissima parentesi al Comune di Roma (commissario straordinario nel dopo Veltroni), altro passaggio da non poco (la direzione nazionale dell’Agenzia per i beni confiscati alle mafie), poi l’approdo al suo Dipartimento, quello per le Libertà civili e l’Immigrazione. Che, però, gli procura qualche rogna: viene infatti indagato per una brutta storia finita sotto i riflettori della procura di Potenza e riguardante alcune sigle “caritatevoli e solidaristiche” impegnate nella gestione di centri per immigrati. Altro inquisito “eccellente” Gianni Letta, il gran Ciambellano di Silvio Berlusconi. L’inchiesta finirà nel solito flop, prosciolti gli imputati, tra cui ovviamente Morcone. Le sigle allora sotto i riflettori, però, riemergeranno qualche anno dopo con l’inchiesta di “Mafia Capitale”, proprio per gli stessi business sulla pelle degli immigrati, via centri d’accoglienza: le nuove “vie” di maxi business per coop facili di vari colori, colletti bianchi e mafie.
Ma torniamo al pedigree di Morcone. Che nel 2011 viene presentato dal Pd come candidato alle amministrative di Napoli. Non arriva neanche al ballottaggio, surclassato da Luigi de Magistris, che poi diventa sindaco (e verrà riconfermato dal prossimo, scontato voto del 12 giugno), e dal forzista (anche lui ricandidato adesso, tanto per cambiare) Gianni Lettieri. Umiliato dal voto popolare, il signor nessuno torna al suo Viminale, per ri-occupare l’amata poltrona alle Libertà civili e all’Immigrazione: e partorire, oggi, il Super Bando…
Un altro interrogativo sorge spontaneo: ma l’eterna portavoce di Angelino fin dai tempi della Giustizia (quando Alfano ricopriva la carica di ministro nell’esecutivo Berlusconi poi “montizzato”), ossia Danila Subranni, lavora “a gratis”? Viene pagata dal ministero? O da chi?
Per la cronaca, si tratta della figlia del generale dei Carabinieri Antonio Subranni, al vertice del Ros nei i primi ’90, strategici nel “contrasto” alla mafia. Dalla cattura di Totò Riina alla clamorosa mancata perquisizione del covo, che permise la “sparizione” dei documenti top secret di Cosa nostra (in primis il famigerato “elenco dei 3000 nomi”, politici e colletti bianchi collusi con la mafia), fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano. A quanto pare era etichettato “U pinciuto” da Paolo Borsellino, il colonnello Subranni, ma il successivo procedimento giudiziario (come del resto quelli per il covo e la mancata cattura) s’è chiuso nel rituale flop (ad archiviare, in quel caso, il gip di Caltanissetta). Nel suo fitto pedigree c’è un’altra macchia, quella relativa al clamoroso depistaggio per la morte di Peppino Impastato: chiaramente vittima della lupara mafiosa (clan Badalamenti), il coraggioso giovane reporter, mentre il fiuto investigativo di Subranni aveva a lungo battuta la pista di un attentato terroristico (una bomba ad un traliccio nel giorno del rapimento di Aldo Moro) in cui avrebbe trovato la morte. Ha mai subito qualche “contraccolpo” per questa serie di prodezze, il generale? Macchè, è uno dei pensionati d’oro di un Belpaese diviso sempre più a metà: Paperoni e popolo bue, da spremere anche “a gratis”…
PER APPROFONDIRE:
IL PRESIDENTE NAPOLITANO RISPONDE ALLA VOCE SUL CASO ZINNI E TRASMETTE AL CSM – 6 giugno 2014 – https://www.lavocedellevoci.it/?p=1242
Caso Voce/Zinni-Di Pietro – La solidarietà di Aldo Giannuli – 19 luglio 2015 – https://www.lavocedellevoci.it/?p=2600
e ancora:
Il caso Voce sul primo quotidiano online dell’Abruzzo – 9 maggio 2014
Regionali Abruzzo: scende in pista il terzetto IDV – 23 aprile 2014
IL VOLO DI ANGELINO – 15 marzo 2014
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Un commento su “GIORNALISTI CARTA STRACCIA”