Uccisi due volte. Dalla camorra o dai servizi, mandanti regolarmente a volto coperto, parenti e famiglie distrutti dal dolore. E massacrati una seconda volta, da una giustizia cieca, a base di indagini depistanti, repentine archiviazioni, motivazioni spesso farneticanti. Per riaprire il caso devi scalare la cima Coppi e poi trovi un altro burrone.
E’ proprio il caso Pantani (scippato del Giro ’99 e giù verso l’inferno), la ferita più fresca e lancinante. Quando viene fuori la pistola fumante delle telefonate di camorra che lo volevano sconfitto al Giro per le scommesse, ecco che i pm chiedono l’archiviazione: perché tanto si va verso la solita prescrizione ammazzatutti. E così il Pirata è ucciso tre volte: dalla camorra che gli scippa a Madonna di Campiglio quel sudatissimo e meritatissimo Giro, a un passo dal traguardo, comprando le sue analisi taroccate, e che lo uccide una seconda volta nel residence di Rimini, per quell’overdose di coca & pasticche, e dalla giustizia – ciliegina sulla torta – che chiude non uno ma due occhi davanti alle schiaccianti prove portate dall’avvocato della famiglia Pantani e ora di fronte alle rivelazioni choc del camorrista che conferma “Pantani doveva perdere il Giro”, e – con esso – la vita.
Nel giallo Pantani il pentolone contiene non pochi ingredienti esplosivi, e per questo deve essere sigillato con forza: doping nello sport – a quanto pare il Pirata avrebbe potuto rivelare molto sui traffici nel ciclismo e non solo – con il giro milionario che ruota intorno; scommesse clandestine, e anche in questo caso “Giri”, è il caso di dirlo, da capogiro, popolati dalla solita camorra, riciclatori, insospettabili colletti bianchi.
Ma altri casi, tornati, per un motivo e per l’altro, alla ribalta, portano a connection di interessi e affari stramilionari: che è sempre il caso di tenere ben nascosti, lontani dai riflettori delle cronache, con le vittime che molto difficilmente avranno mai giustizia. E’ il caso di David Rossi, il responsabile comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, e i “grovigli armoniosi” che ruotano intorno all’istituto di credito, da anni nell’occhio del ciclone. E’ il caso di Federico Bisceglia, il magistrato che indagava sulle ecomafie – tra miliardi, massonerie, colletti bianchi, politici – e morto per un “incidente” stradale esattamente un anno fa (un mese prima cadeva dall’albero il super collaboratore di giustizia Carmine Schiavone). E’ il caso di Adamo Bove, che otto anni fa pensa bene di “suicidarsi” buttandosi giù dalla Tangenziale di Napoli, operazione dinamicamente ai confini della realtà: stava per rivelare i segreti del dorato mondo delle telecomunicazioni. E’ il caso – per certi versi simile – di Niki Gatti, giovane informatico “suicidato” con i lacci delle scarpe nel super carcere di Sollicciano: sapeva molto di affari & riciclaggi sempre nel settore della comunicazioni “deviate” e non solo. E’ il caso del cardiochirurgo Carlo Marcelletti, che si “suicida” proprio quando sta per vuotare il sacco – davanti ai magistrati e con un libro pronto per la stampa – sul mondo della sanità, fra truffe, carriere facili, baronie, mafie e riciclaggi.
Nessuno di loro doveva più parlare: per questo una autentica epidemia di vocazioni suicide. Ma vediamo i casi uno per uno, con le ultime novità; mentre per un racconto più articolato vi rimandiamo ai link in basso, tutte inchieste della Voce pubblicate per cercare di scalfire quei muri di gomma, e soprattutto denunciare una Giustizia che non c’è più.
MARCO PANTANI / QUEL MEGA GIRO DI SCOMMESSE A PERDERE
14 marzo, tutto in un giorno. Vengono alla luce le rivelazioni telefoniche del boss di Secondigliano, Rosario Tolomelli, alias ‘o zio, sul Pirata che doveva perdere quel Giro; contemporaneamente i pm di Forlì chiedono l’archiviazione “per avvenuta prescrizione del reato contestato”. Quale l’arcano? La camorra ha pagato perchè le provette con il sangue di Pantani venissero alterate, o scambiate con un altro sangue, per far risultare il pirata con un ematocrito superiore a quanto consentito, e quindi squalificato: il reato è di corruzione. Altra cosa se il reato fosse stato quello di violenza, minacce o intimidazione, i cui tempi di prescrizione sono più lunghi. Quindi, processo (nato) morto, abortito prima ancora di potersi svolgere, proprio quando la “pistola fumante” salta fuori. Ed è evidente che il “suicidio” successivo nel residence di Rimini è ora da rileggere in chiara chiave di camorra: un omicidio in piena regola, come ha sempre sostenuto l’avvocato Antonio De Rensis, legale dei Pantani, e come hanno invece sempre contestato i magistrati che si sono susseguiti nel caso, tutti animati dallo scopo di seppellire quel giallo. Molto pericoloso non solo per i boss di Secondigliano – la manovalanza criminale – ma anche per qualcuno (alcuni) da proteggere molto più in alto.
La camorra – è ormai accertato – decise che quel Giro andava perso, dal Pirata, perchè le casse dei clan non sarebbero state in grado di pagare l’altissimo monte di scommesse che avevano puntato sulla vittoria: con una sconfitta, invece, si evitava di dover sborsare milioni di euro e invece alcuni fortunati “better” dell’ultima ora, imbeccati a tempo, potevano garantirsi vincite da mille e una notte.
Il filone d’indagine si apre quasi per caso, un paio di anni fa, grazie alle rivelazioni di Renato Vallanzasca, il quale racconta che nel carcere di Opera, a Milano, dove era detenuto, fece amicizia con un camorrista, che gli consigliò di scommettere sulla sconfitta di Pantani, per fare un mucchio di soldi. In seguito al racconto di Vallanzasca, i carabinieri si mettono alla caccia del boss e, dopo lunghe ricerche, lo identificano. Il suo telefono verrà messo sotto controllo e, in una conversazione, si sentirà confidare ad un parente quella trama per far perdere Pantani. Dirà 5 volte sì, più precisamente, ad una domanda che gli viene rivolta. Ma quella “regina delle prove” va adesso a finire in naftalina. Potrà esserci una revisione del processo? A quanto pare no, per la Giustizia di Casa Nostra. Al massimo la famiglia Pantani potrà rivolgere un’istanza al Coni affinchè quel tragico Giro del 1999 venga coassegnato anche a Marco: alla memoria. Ma i killer? I mandanti? Chi ha guadagnato cifre blu sul sangue del Pirata? Chi ha depistato? Chi ha chiuso gli occhi? Niente. Tutti innocenti fringuelli.
Del resto, anche alla procura di Rimini – che avrebbe dovuto far luce sulla dinamica della fine di Marco al Residence “Le Rose” – il buio più totale. Con un pm che, tanto per cambiare, ha chiesto l’archiviazione. Nonostante la impressionante mole di perizie, prove, documenti prodotti da De Rensis, tutti per dimostrare in modo sostanziale moventi e dinamiche di un omicidio fino ad oggi “perfetto”. Macchie di sangue sul corpo del campione, ferite, lividi, segni evidenti di una colluttazione, e non di una crisi autodistruttiva, come incredibilmente sostenuto dagli inquirenti. Secondo i quali vale la tesi dell’overdose: solo che cambia il mezzo, perchè in prima battuta si parla di coca, poi di farmaci, antidepredessivi. E gli altri elementi? La pallina di pane e coca? I mobili devastati? Gli evidenti segni di trascinamento del corpo (in genere i cadaveri non si autotrascinano)? I giubbini ritrovati e non appartenenti al ciclista? Niente. Tutto inutile. Prove & perizie nella monnezza. E nessuno a seguire la pista di una camorra che ormai da trent’anni ha messo su tende e avamposti operativi lungo la ricca costiera romagnola!
DAVID ROSSI / QUEL MONTE DI MISTERI & MASSONI
6 marzo. Centinaia di cittadini riuniti sotto una pioggia battente in piazza Salimbeni, a Siena, dove trova il quartier generale del Monte dei Paschi. A promuovere l’iniziativa la famiglia di David Rossi: “A tre anni dalla morte rompete il silenzio – è l’invocazione – alzate la testa. Nessun simbolo, né colore. Uniti solo per chiedere giustizia”.
Anche stavolta una morte atroce prima – a marzo 2013 David vola giù dal quinto piano della sede di piazza Salimbeni – e un calvario giudiziario poi. Con il ceffone
dell’archiviazione firmata, appena un anno dopo, marzo 2014, dal pm della procura senese, Aldo Natalini, che sbrigativamente passava tutto sotto la naftalina, un suicidio in piena regola, con tanto di stato depressivo accertato, situazioni angoscianti per il quasi crac della sua banca, il patema provocato dai primi interrogatori. Niente di più facile – secondo gli 007 di casa nostra – che darsi un po’ di cazzotti (come ha fatto del resto Pantani) prima, tanto per autopunirsi un po’, salire sul balcone e cadere perpendicolarmente in giù. Anche uno studente di ragioneria, a questo punto, capirebbe che qualcosa non quadra. Ma il miracolo non s’avvera a Siena. Perchè c’è bisogno di ben tre perizie per cominciare a scalfire quei muri “giudiziari” (sic) di gomma.
Tre perizie ordinate dal legale della famiglia Rossi, Luca Goracci, e tutte estremante chiare. La prima, grafologica, dimostra che i tre biglietti lasciati da David per la moglie sono stati scritti sotto evidente coazione psicologica, oltre che fisica. La seconda, di tipo medico-legale, ha riscontrato ecchimosi e lesioni sul corpo, in particolare sul braccio destro, evidente sintomo di una colluttazione e di un trascinamento-sollevamento in direzione del balcone, dal quale issarlo, per farlo cadere, appunto, “a piombo”, in modo perpendicolare. E proprio ciò ha dimostrato la terza perizia, sulla “dinamica” del “suicidio”.
La perizia, poi, è corredata dal filmato della telecamera di videosorveglianza (tagliato in varie parti: stesso copione nel caso Pantani, con un lungo filmato della polizia per documentare a caldo la scena del crimine, che magicamente diventa di pochi minuti). Ancora. Nella dettagliata memoria dell’avvocato Goracci viene evidenziato il fatto che David Rossi “era in possesso di informazioni che potevano essere molto pericolose per i politici locali, nazionali e anche sovranazionali”. Circostanza che del resto ha ribadito nel corso di un’audizione alla commissione d’inchiesta promossa dalla Regione. E poi: David aveva fatto sapere ad alcuni amici e ai familiari che era intenzionato a rivelare non poche circostanze di grosso peso agli inquirenti; e aveva comunicato la sua intenzione anche all’amministratore delegato Mps, Fabrizio Viola, proprio qualche giorno prima di essere “suicidato”.
Il caso, un paio di mesi fa, è stato finalmente riaperto. Verrà fatta luce? Anche sugli intrecci massonici che hanno profondamente caratterizzato tutta la Monte Paschi story, operazioni border line comprese, come la famigerata acquisizione dell’Antonveneta buttando dalla finestra (è il caso di dirlo) palate miliardarie, forse per coprire inconfessabili “buchi neri”?
FEDERICO BISCEGLIA / CHI TOCCA LA MONNEZZA MUORE
Ucciso tre volte il magistrato, in servizio alla procura di Napoli nord, Federico Bisceglia, che stava alzando il velo sui “mandanti” istituzionali e politici del maxi business monnezza in Campania e non solo. Perde la vita il 1 marzo 2015, in un inspiegabile incidente stradale. Viene riammazzato dall’archiviazione, chiesta a tempo record quando le prove parlano un linguaggio diametralmente opposto. E calpestato la terza volta il 14 marzo, quando in un convegno indetto al palazzo di giustizia di Napoli per ricordare la sua memoria, la star d’occasione è nientemeno che Gigi D’Alessio, testimonial scelto dall’ex governatore Stefano Caldoro per rifare il look ad una Regione del tutto assente sul versante dei controlli sulle ecomafie.
Osserva un avvocato che ha preso parte alla kermesse promossa non alla festa rionale della Sanità, ma nel tempio (sic) della Giustizia di casa nostra, al centro
direzionale di Napoli: “una cosa indegna. Invece di commemorare un eroe che ha dato la sua vita per far luce sui traffici di camorra e colletti bianchi che hanno ingrassato lorsignori e stanno uccidendo e uccideranno ancor più per cancro nei prossimi anni, hanno pensato di fare una pagliacciata con Gigi D’Alessio. Per non parlare della gazzarra – sotto gli occhi dei vertici della magistratura locale – tra varie sigle di avvocati, che si azzuffavano tra garantismo e non a proposito di inchieste passate e presenti sulla star neomelodica”.
Fin qui la poco edificante cronaca, che farà girare come una trottola nella tomba qualcuno che avrebbe meritato ben altro: forse quelle centinaia di presenze silenziose ma vive su cui ha almeno potuto contare David Rossi. E con la prospettiva di un’inchiesta che si riapre.
Per Federico, invece, a quanto pare il buio non pare destinato – almeno per ora – a squarciarsi.
Eppure anche i ciechi sarebbero in grado di vedere in quale modo verità & giustizia, fino ad oggi, siano state del tutto negate. Una dinamica dell’incidente, quella che coinvolse la notte del 28 febbraio 2015 la Lancia K sulla quale viaggiava il magistrato con un’amica, un medico salernitano, ai confini della realtà.
Balzano subito agli occhi clamorose incongruenze e macroscopiche contraddizione tra le versioni dell’Anas, della polizia e degli inquirenti.
Archiviato in fretta il caso, rimangono in piedi interrogativi – senza risposta – grossi come una casa. Perchè sull’asfalto non ci sono tracce di frenata né di sgommate? Perchè il guard rail dove la vettura “è passata” è rimasto integro? C’è stato o no un testacoda come inizialmente riportato dai bollettini Anas? E soprattutto, come macigni altri interrogativi delle cento pistole: c’è stato un solo incidente quella notte o due? Che fine hanno fatto i testimoni di cui ha subito parlato “La Provincia di Caserta”? Che fine ha fatto il teste oculare, la dottoressa Anna Russolillo, ferita gravemente secondo le prime notizie, ricoverata in ospedale e miracolosamente dimessa dopo due giorni? Ha perso la memoria o qualche manina l’ha convinta a “non parlare”?
Così come qualche manina ha forse agevolato la caduta dal pero, neanche un mese prima, di Carmine Schiavone, cugino di Sandokan, collaboratore da anni (la prima verbalizzazione ai carabinieri risale al 1995, finita subito a marcire nei cassetti, pur se conteneva rivelazioni già allora esplosive) ma deciso a dire quel che fino a quel momento non aveva ancora rivelato, sul fronte bollente dei referenti politici e istituzionali nel business monnezza. Business nel quale – lo rivela Schiavone, lo confermano alcune recentissime “scoperte” nell’area fra Gaeta e Sperlonga, epicentro di svariati summit – Servizi & massoneria hanno giocato un ruolo base, a cominciare dai primi incontri di Villa Wanda, maison aretina del Venerabile Licio Gelli, con la partecipazione, fra gli altri, del boss dei Casalesi Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte, e dell’avvocato-faccendiere Cipriano Chianese. Bisceglia stava tirando i fili delle ultime, clamorose indagini, che avrebbero forse segnato la fine politica, imprenditoriale e di “carriera” per non pochi insospettabili e pezzi da novanta dall’establishment. Poteva mai portare a termine quell’inchiesta? Dimenticavamo: per Schiavone nessuna fulminea archiviazione. Perchè il caso non si è mai aperto. Nessun dubbio ha mai lontanamente sfiorato la mente di un inquirente: morte puramente accidentale. O meglio, forse qualcuno ci aveva pensato, e aveva appena cominciato a lavorare su quella pista. Un certo Bisceglia…
CARLO MARCELLETTI / GLI AFFARI DELLA SANITA’ MAFIOSA
Eccoci ad un giallissimo del 2008. La tragica “fine” del chirurgo dei bambini, Carlo Marcelletti, un mito della medicina travolto da uno “strano” scandalo, finito sotto inchiesta, accusato di mille nefandezze, ai domiciliari. “Depresso al punto da togliersi la vita”, secondo gli inquirenti che hanno subito archiviato il caso, pm Elisabetta Cennicola, della procura di Roma. “Ancora con tanta passione civile da voler dimostrare la sua totale innocenza e invece scoperchiare il pentolone degli scandali sanitari in Sicilia e non solo”, dicono i pochi che hanno lottato al suo fianco.
Tutto chiaro per la magistratura quel “suicidio” dell’estate 2008, ingerendo una overdose di digitalina, un farmaco che conosceva benissimo, da buon cardiochirurgo.
In un volume intitolato “Cepus Dei” un medico e un avvocato (rispettivamente Massimo Citro e Michele Bonetti) ricostruiscono per filo e per segno l’intera vicenda e
quell’incredibile suicidio. Come mai, invece, nessuno ha mai indagato su quello che Marcelletti stava per fare? Ossia per denunciare, sia raccontando agli inquirenti fatti & misfatti in campo sanitario, sia pubblicando un libro choc, ormai in fase di ultimazione, “Sulla pelle dei cittadini”, edito dalla Piemme? Come mai nessuno ha pensato bene di chiedere qualche spiegazione ai responsabili dell’editrice? Al coautore? E al giornalista Luca Telese che lo aveva pre-recensito? Nel volume bollente, a quanto pare, venivano fatti nomi e cognomi di medici collusi con la mafia, politici in grado di condizionare carriere e gestire flussi milionari, ricostruendo al tempo stesso manovre e strategie di moloch sanitari come Asl e Regione, il tutto “sulla pelle dei cittadini”. Ecco un breve stralcio dalla prefazione: “In alcuni salotti frequentati da professionisti e boss si decidono gli affari della sanità e perfino i nomi dei primari. Lo ha dichiarato anche il procuratore antimafia Pietro Grasso che ha comunicato un dato agghiacciante: otto medici su dieci in Sicilia risultato inquisiti. Del resto gli intrecci tra crimine organizzato e camici bianchi emergono dai molti arresti per concorso esterno in associazione mafiosa di questi anni e sono troppi per pensare ad un rapporto episodico”.
Ma chi è finito nel tritacarne della Giustizia di casa (o Cosa) nostra? I medici collusi o chi li denunciava? I politici in combutta o chi puntava il dito per indicarli? Ovviamente chi osa toccare quei Santuari, quella zona grigia popolata da colletti bianchi intoccabili, professionisti, politici, medici, e anche magistrati. Denunciava Marcelletti in un’intervista rilasciata all’Adn Kronos pochi mesi prima della fatale overdose (stessa modalità, guarda caso, per Pantani): “tanti medici vengono assunti o fanno carriera grazie a lobby, correnti di partito o mafia”; e punta i riflettori sulla burocrazia sanitaria, “direttori generali, presidenti, consulenti, manager, consiglieri, tutti terminali di un sottobosco politico” che ormai fisiologicamente intreccia rapporti con la mafia.
E sempre in campo sanitario, da non dimenticare tre gialli napoletani a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90. Il “suicidio” di Carmine Mensorio, che decide di tuffarsi dal traghetto che lo porta dalla Grecia in Italia, dove ad attenderlo sono i pm della procura di Napoli per verbalizzare sui primi rapporti politica-camorra-sanità (lo stesso Schiavone dichiarò due anni fa: “fu una manina dei Servizi ad aiutare Mensorio in quel tuffo”). Risultato dell’inchiesta? Dopo tre mesi il caso venne archiviato dalla procura di Ancona. Nello stesso periodo, sempre a Napoli, “spariva” il preside di Farmacia, il massone (nella sua valigetta vennero ritrovati i consueti arredi, dal cappuccio al grembiulino) Antonio Vittoria: peccato, perchè il giorno dopo avrebbe dovuto verbalizzare davanti ai pm di Mani pulite sugli affari sanitari germogliati all’ombra di Sua Sanità De Lorenzo. “Una cremazione lampo mai verificata” ricordano in molti a Napoli, mentre parecchie voci lo davano, al tempo, in dorata vacanza nell’isola di Marguerita, in Venezuela. E un paio d’anni prima un terzo giallo in camice bianco, l’omicidio Crispino, il re delle cliniche private: ammazzato dalla camorra, al solito, a volto regolarmente coperto i mandanti politici (intorno al suo piccolo impero c’era un vorticoso ruotar di mazzette).
ADAMO BOVE / LE LINEE ROVENTI DEGLI SPIONAGGI TELECOM
Siamo nella bollente estate 2006 quando il manager della Security di casa Telecom, Adamo Bove, per rinfrescarsi e pensando forse di trovarsi ad Acapulco, decide di fare un ben tuffo da 30 metri, gettandosi da un ponte della Tangenziale di Napoli, in uno dei tratti più trafficati, quello del Vomero. Modo del tutto anomalo per togliersi di mezzo. Più anomalo se si pensa che pochi giorni dopo avrebbe dovuto verbalizzare davanti ai magistrati, impegnati a ricostruire le connection a base di milioni, spiate e sigle di security (a volte anche riconducibili ad ambienti malavitosi). E ancora di più se si tiene conto delle fresche intimidazioni e soprattutto pedinamenti sospetti che aveva subito negli ultimi giorni, come denunciato più volte poi dai familiari, capeggiati da un indomito padre che ha sempre sostenuto: “mio figlio me l’hanno ucciso. Altro che suicidio”.
Un uomo difficile da spezzare, Bove, carattere volitivo, per anni in servizio alla Direzione investigativa antimafia, poi passato al settore privato, per occuparsi infine della sicurezza nell’azienda di Marco Tronchetti Provera. Sono anni duri, l’inizio dei 2000, perchè è all’opera il Tiger team targato Giuliano Tavaroli e Marco Mancini. Da quel Tiger team scaturiranno migliaia e migliaia di spiate, di dossieraggi che i vertici Telecom intendono effettuare a 360 gradi: da concorrenti imprenditoriali, a mezzo mondo politico, fino a manager del calcio (come Luciano Moggi, patròn dell’odiata Juve, avversario della tronchettiana Inter), sportivi (lo stesso Bobo Vieri all’epoca centravanti interista) e perfino la bella Afef, sulla cui fedeltà nutre qualche piccolo dubbio il marito Marco, mister Pirelli-Telecom. La montagna di intercettazioni illegali finirà inevitabilmente sotto i riflettori della procura di Milano: un processo fiume, che ancora oggi ribalta sentenza su sentenza. Poteva non sapere, il padrone assoluto Tronchetti Provera, quel che i suoi dipendenti facevano per le sue aziende? Ovviamente no, seguendo il buon senso e i tanti precedenti, soprattutto berlusconiani. Invece sì, secondo i collegi giudicanti, nonostante le dure requisitorie dei pm, per i quale, ovviamente, il capo non poteva non sapere.
La sceneggiata continua ancora ai giorni nostri. Mentre il giallo-Bove è stato subito archiviato. Suicidio. Così come è stato archiviato – altro suicidio – il caso di Gianmario Roveraro, il cui cadavere venne ritrovato proprio lo stesso giorno, 21 luglio 2006, del volo di Bove dalla Tangenziale. Ironia del destino: sia Roveraro che Bove militavano tra le fila della potente Opus Dei. Docente in quota Telecom ai corsi Elis Fellow promossi dall’Opus, il primo; presidente della Fondazione Rui, azionista del Campo Biomedico, fondatore di banca Akros, ideatore dei corsi Faes della Prelatura e soprannumerario dell’Opus, il secondo, cioè Roveraro: la cui morte – appunto archiviata, come al solito – verrà attribuita ai “balordi”.
Ma un’altra clamorosa vicenda, ovviamente oscurata dai media e archiviata dalla solerte magistratura, riguarda Niki Aprile Gatti, finito in una rete – guarda caso – sempre a base di affari Telecom (più Fastweb). L’inchiesta della magistratura fiorentina (tra l’altro territorialmente non competente), partita proprio nel 2006, riguarda una serie di spericolate triangolazioni, via San Marino, operata da alcuni colossi delle telecomunicazioni, per riciclare la bellezza di 2 miliardi e 400 milioni, soprattutto di iva evasa. Coinvolti nell’inchiesta, e arrestati, pesci medi (come l’allora presidente dell’Arezzo Calcio) e piccoli, come Niki Gatti. Intoccati e intoccabili i pezzi da novanta. Tutti spediti nel carcere di Rimini, gli imputati, tranne uno, Gatti, che come il più pericoloso dei boss mafiosi viene rinchiuso nel super carcere di Sollicciano. Dove, dopo alcuni giorni di detenzione, si “suicida”. Subito archiviato il caso, nonostante alcune interrogazioni parlamentari dei 5 Stelle e del senatore Elio Lannutti, il quale sottolineava (proprio come nelle vicende Pantani e Rossi) tutte le anomalie nella dinamica del “suicidio” (in particolare come potessero dei lacci di scarpe reggere il peso di un ragazzone di 92 chili). La famiglia protesta, la madre di Niki non si dà pace.
E’ il solito, tragico copione di chi viene massacrato e calpestato due volte. Dai killer e dalla Giustizia che chiude gli occhi.
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