Odio i coccodrilli. Li odio da sempre per la dannazione che comportano, quel rimpianto di avere aspettato tanto tempo per scrivere ancora una volta di quel Grande che ora non c’è più.
Poi però ci sono volte in cui ti tocca. E questa è una di quelle.
Non vorresti scrivere che ti ricordi di lui come lo avevi incontrato in quella intervista di tanti anni fa. Non vorresti dover ammettere che avresti dovuto ritrovarlo nelle tante occasioni possibili in trent’anni, invece di dare la solita occhiata fugace alle sue rubriche su Repubblica, o magari potevi chiederti se c’era ancora vita dopo “Il nome della Rosa”, e se “c’era ancora Eco” dopo le magnifiche “Postille”. E se ne valeva davvero la pena di sorvolare su una così maestosa lezione. Ma tant’è, sono qui ad ammettere che se in questi lunghissimi anni ho continuato a coniugare pensieri e notizie, costruendo architetture logiche forse utili ai lettori, devo essere grata a Umberto Eco. E, come me, deve farlo l’intera mia generazione – ma sicuramente anche le prossime – di giornalisti e di scrittori italiani.
Quando in quel giugno del 1991 Eco arriva al Suor Orsola Benincasa, l’atmosfera generale è quella dell’attesa di un Vate. Lui lo sa, gli capita tutti i giorni ormai da anni, ma non se ne cura. E dopo la magistrale testimonianza – di letteratura, di vita e di futuro – che la sala gremita ascolta col fiato sospeso, si lascia avvicinare da una sconosciuta cronista, come me, che ha già pronte un paio di domande ‘intriganti’ per non lasciarselo sfuggire. E quindi ecco le ondate migratorie (sì, quelle, nel 1991…) con il famoso ‘mito del Cargo’, che da appassionata sua lettrice gli sottopongo subito. Gli chiedo se conta ancora qualcosa quello sgomento delle tribù che adoravano come un idolo il vecchio frigorifero caduto dalla stiva di una nave. Lui non resiste e risponde subito: «Queste popolazioni si sono stancate di rimanere nei loro luoghi d’origine ad aspettare il ‘cargo’ e ora vengono a prenderselo qui. Solo che l’Italia non è il Paese di Bengodi. E loro lo hanno già capito». I Sud del mondo, certo. Ma anche l’altro sud, quello tutto nostro, quello drammaticamente meridionale. Lui taglia corto: «Non patate avrebbero dovuto mandare al Sud. Ma badili».
Certo che Eco mancherà a tutti. Certo che la sua lezione andrà oltre le latitudini, certo che scavalcherà anche le barriere temporali. Certo. Un solo dubbio mi tormenta: quella scelta del ‘saluto laico’ che, almeno per lui, chiude per sempre le porte ad ogni speranza. Dove è andata la morte, caro Umberto? E dove sei andato tu, grande professore?
Dove è andata la morte
(di Umberto Eco, L’Espresso, 29 novembre 2012)
La scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene fin dalla nascita, e con cui l’uomo saggio viene a patti per tutta la vita.
Qui, in pdf, l’intervista a Umberto Eco pubblicata sulla Voce a giugno del 1991
intervista a Umberto Eco-Voce giugno 1991
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