FALLIMENTI 
FANTASMA TRA LE NEBBIE DEL GOVERNO RENZI

Sole 24 Ore, 2 gennaio: “Partecipate, dal riassetto ‘sì’ al fallimento”. Corriere della Sera, 5 gennaio: “Aziende e crisi, addio al fallimento”. Siamo su “Scherzi a parte”? No, nella piena maturità del governo Renzi, dal quale quasi con regolarità svizzera vengono partorite “novità” che fanno letteralmente a cazzotti con la realtà. Vediamo l’ultima, a proposito dei “fallimenti”, sia di aziende private che pubbliche, ossia l’incredibile giungla di “partecipate” – addirittura 8000 – che sempre secondo il Libro dei Sogni di mister Renzi dovrebbero progressivamente ridursi: con molta calma, anni e anni, senza disturbare più di troppo l’esercito di dipendenti e soprattutto di dirigenti superpagati dalla Stato per girarsi i pollici dal mattino alla sera.

Ecco cosa scrive Gianni Trovati sul quotidiano di Confindustria. “Le società partecipate della pubblica amministrazione potranno fallire come tutte le altre aziende e seguiranno le regole ordinarie nate con il regio decreto del 1942, numero 267, e poi modificate dalle regole successive. In fatto di aziende pubbliche – precisa il commentatore finanziario – il decreto attuativo della riforma Madia atteso in consiglio dei ministri per metà gennaio (se saranno pronti anche gli altri testi del ‘pacchetto’) interverrà a chiarire per legge un tema che finora è stato lasciato alla giurisprudenza, con vicende alterne. Di volta in volta, infatti, i giudici si sono espressi in maniera diversa sulla possibilità di fallimento delle società pubbliche, spesso negata sulla base dell’esigenza di tutelare la ‘continuità’ del servizio pubblico”. E continua: “Questa linea sembra la più fortunata nei tribunali, come mostra da ultimo il caso di ‘Risco Pescara’, la società locale di riscossione di proprietà di un gruppo di Comuni abruzzesi, il cui fallimento è stato revocato qualche mese fa dalla Corte d’Appello dell’Aquila”.

Secondo gli esperti, comunque, la tendenza a non far fallire le società “in house” deriva soprattutto da un precedente illustre: ossia la sentenza a sezioni riunite della Cassazione del 2013, numero 26283, secondo cui tali società non sono aziende vere e proprie, ma in sostanza articolazioni della Pubblica Amministrazione, che è la reale e unica proprietaria. Per la serie, se fallisce una “partecipata” deve fallire anche il Comune o la Regione che l’ha creata e fatta crescere.

La protesta dei lavoratori di Bagnolifutura. In apertura il ministro Andrea Orlando

La protesta dei lavoratori di Bagnolifutura. In apertura il ministro Andrea Orlando

Alla presidenza del Consiglio, e tantomeno al ministero per l’Economia, e tantomeno ancora al ministero per la Giustizia, ignorano però un fatto. Negli ultimi anni sono “fallite” già alcune partecipate. Clamoroso il caso del carrozzone “Bagnolifutura”, una STU per i tecnici (Società di Trasformazione Urbana), che in 18 anni di servizio (in)attivo – ma ottimo per pagare consulenze d’oro ad amici e parenti, senza partorire neanche la lontana idea di una prima bonifica – ha fatto crac sotto una montagna di debiti, 200 milioni tondi tondi, gettando al vento i destini di un’area di grande valore ambientale, e consegnandola di fatto nelle mani di affaristi, speculatori & camorristi, un infernale mix sotto gli occhi di quegli enti locali che avrebbero dovuto controllore e invece hanno chiuso non uno ma due occhi. Del resto, Bagnolifutura era controllata da Comune (90 per cento), Regione (7,5 per cento) e Provincia (2,5 per cento). A decretarne il fallimento una sentenza della settima sezione civile del tribunale di Napoli (la “fallimentare” salita negli anni essa stessa alla ribalta delle cronache giudiziarie, come è successo mesi fa a Palermo con il caso-Saguto) pronunciata il 29 maggio 2014, dopo ben due settimane di camera di consiglio, dal giudice Lucio Di Nosse.

Passiamo alla seconda ‘novità’ partorita dall’esecutivo di speedy Renzi. Tutto prende il via dalla elaborazione del testo di “riforma” (sic) sulla “bollente” materia fallimentare, da sempre ancorata a quel regio decreto d’epoca fascista. L’imput ovviamente viene dal Guardasigilli, Andrea Orlando, che a febbraio 2015 dà vita ad una commissione ad hoc. A presiederla l’ex commissario Consob Renato Rordorf, da poche settimane numero due della suprema corte di Cassazione: a bruciarlo sul filo di lana nella corsa alla presidenza Giovanni Canzio, nominato – tra non poche polemiche interne al Csm, dovute al fatto che resterà in carica solo un anno, per motivi di età – al vertice del Palazzaccio (è stato fra l’altro presidente delle Corti d’Appello a L’Aquila e, da ultimo, a Milano).

La grande riforma preparata dalla commissione Rordorf – secondo le prime valutazioni tecniche – puntava a qualche ritocco di sostanza, ma si sarebbe ridotta ad un un puro maquillage. Obiettivo base quello di evitare le procedure di crac, intervenendo in anticipo nelle situazioni di crisi, favorendo i rapporti con le banche e con i creditori; e rivedendo anche il regime delle “amministrazioni straordinarie” per le grandi imprese, anticamera per sprechi e consulenze d’oro. Ma la sostanza partorita sarebbe ben poca cosa e, appunto, di sola facciata. “Tutto in pratica si riduce a un cambio di nome – commenta una toga milanese – come sovente accade con le ‘rivoluzionarie’ riforme targate Matteo: invece che di infamanti fallimenti, d’ora in poi, si parlerà di “liquidazioni giudiziarie”: sulla carta meccanismi meno infernali per imprese in difficoltà e sull’orlo della crisi. Ma solo i fatti potranno dire se c’è qualcosa di concreto. Ne dubito”.

Per ora consoliamoci con un tè caldo: secondo gli ultimi dati Unioncamere i fallimenti 2015 sarebbero in diminuzione rispetto all’anno precedente (12.583 imprese invece di 13.223). Come lo 0,1 per cento in più del pil renziano. Cin cin.


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