14 ottobre, il Di Pietro day. E’ il gran giorno del ritorno in campo del mitico eroe di Mani pulite, del super Moralizzatore che terrorizzava ladri & mazzettari, l’uomo senza macchia e senza paura che ha demolito la prima repubblica. Il giorno è più “azzeccato” che mai, il day after la nuova Tangentopoli che scuote il palazzo della Regione Lombardia con l’arresto del ras della sanità Mario Mantovani che faceva un elegante pizzo con merletto ai poveri dializzati o che poteva ristrutturare le sue fantasmagoriche magioni alla faccia degli anziati buttati a morire negli ospizi.
E quindi lui, il Mastrolindo di tutto il marcio accumulato vent’anni e passa fa nei Palazzi dc, psi & dintorni, non può che essere il benvenuto nei salotti & salottini dell’informazione (sic), soprattutto in vista delle prossime amministrative che, a Roma come a Napoli e in questo caso a Milano, soffieranno impetuose per spazzar via vecchie e nuove mummie della politica, per veder sorgere il Nuovo, aprire i cuori alla Speranza, all’Onestà, alla Giustizia. Città inondate, finalmente, da fasci di luce & trasparenza, per un futuro finalmente civile per le generazioni a venire.
Ecco, allora, lo spartito del Di Pietro day, di un “CandidAntonio” da brividi, degno delle note di Mameli. Ospite d’onore di Lilli Gruber per il suo Otto e mezzo in primissima serata su La 7. Gongola, Antonio, discetta di moralità pubblica come del suo pane quotidiano, lui sì che sa come acchiappare corruttori e corrotti, concussori e concussi, ladri & furbi di ogni razza. E’ il magistrato integerrimo che ci vuole per sgominare le bande che imperversano a Milano, per snidare tutti i mafiosi che lucrano sugli appalti, spesso e volentieri sulla pelle dei cittadini, come dimostra il caso Mantovani. E nella memoria degli spettatori ecco farsi spazio la figura di Mario Chiesa, che lui, l’Eroe – come immortalato nella recente fiction – prese con le mani nel sacco – anzi nel cesso – per far sparire i bigliettoni da centomila guadagnati sulla vita degli anziani (arieccoci) del Pio Albergo Trivulzio, quel 19 febbraio 1992.
Non basta, La 7 di Cairo è più ospitale che mai, e spalanca le porte al San (di) Pietro anche per il suo Omnibus. “Ci vuole un candidato della magistratura, uno così per raddrizzare le istituzioni”. Capito?
Non è certo finita, perchè nella Gabbia di Paragone non può mancar spazio per lo spirito del pm, la figura che incombe su tutto per portare il Verbo della Legalità nella povera Milano bevuta e strabevuta da mafiosi e colletti bianchi di tutte le risme. Ed ecco il miracolo di un Vittorio Sgarbi convertito sulla via di Montenero, pronto a votare e far votare (VotAntonio, VotAntonio) il pubblico ministero che ci vuole per scuotere risotti & panettoni dal torpore, e mandare in gattabuia i delinquenti.
Ma lui, il Robin Hood salito dalle aspre terre d’Abruzzo per portare la buona novella al cospetto della Madunina, narra di essere solo contro tutto e contro tutti, il piccolo Davide contro i Golia dei Palazzi. “Non mi vuole il Pd, non mi vogliono i 5 Stelle”, pigola. E chiede il sostegno della Società Civile. E così, sommessamente, racconta la sua battaglia contro i colossi davanti ai microfoni di Agorà, su Raitre.
Fa sapere ai mortali milanesi e non solo – tra una passeggiata e l’altra sul lago di Como, moltiplicando trote e coriconi – che “il suo posto è nel centro sinistra, pur se Renzi oggi fa poche cose di sinistra. Il problema – analizza – è se il centro sinistra è disposto a riconoscersi in Antonio Di Pietro con la sua storia alle spalle”. Alle spalle non c’è solo l’antica candidatura al Mugello voluta da Massimo D’Alema, ma la realtà del “magistrato più fascista d’Italia”, ricordano al foro di Milano, dove non dimenticano che in quella procura fu l’unica toga a non scioperare (l’altra era Ilda Boccassini, ma per motivi ben diversi…) contro il picconator Cossiga ai tempi delle esternazioni nei confronti dei magistrati morti sotto i colpi della mafia, i “giudici ragazzini” come Livatino.
Poi affonda il coltello nelle piaghe meneghine, la Super Toga. A Milano – è l’analisi da anatomopatologo – “negli ultimi vent’anni non è cambiato nulla. Se Pisapia, che conosceva le identità di certi personaggi che gestivano la lottizzazione degli affari milanesi non ha reagito in alcun modo, vuol dire che a sua volta non ha fatto niente per contrastare la corruzione dilagante”. Un Marino allo zafferano, insomma.
Poi affonda il bisturi: “è riduttivo che il fatto che ci siano personaggi già condannati che continuano a gestire la cosa pubblica sia uno spot per me. La verità è che io sono un personaggio scomodo”. Un avvertimento anche ai “compagni” del Pd: “voglio vedere come e se faranno le primarie. Ma soprattutto mi interessa vedere in base a quale escamotage diranno che Antonio Di Pietro non si può candidare”.
Sedici anni fa, nel 1999, Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato scrissero un libro intitolato “Corruzione ad Alta Velocità”, che ricostruiva in modo minuzioso quel grande business che ha ingrassato tanta parte della politica di casa nostra (e anche Cosa Nostra). In quelle incandescenti pagine balzavano agli occhi le responsabilità di due pezzi da novanta dei nostri Palazzi: Romano Prodi ma soprattutto Antonio Di Pietro. Che non ha mai risposto a quegli interrogativi grossi come macigni e sollevati da Imposimato e Provvisionato, i quali sono andati ben oltre – nella loro ricostruzione – le accuse dei pm di Brescia, a quel tempo, contro Di Pietro. Che venne assolto perchè, al solito, i “fatti non sono penalmente rilevanti”: anche se moralmente e deontologicamente (allora Di Pietro era magistrato di punta del pool) gravissimi.
Riteniamo che un illustre candidato alla poltrona di sindaco per Milano, come Di Pietro, non possa non rispondere a quegli interrogativi giganteschi come il Pirellone. Prima di autocandidarsi o venire candidato, un piccolo sforzo di memoria, per un pm di razza come lui, è una quisquilia. Una pinzellacchera.
Di seguito alcuni stralci (con relative pagine di riferimento) da “Corruzione ad Alta Velocità – Viaggio nel governo invisibile”.
Da pagina 7. “Tangentopoli ha certamente influenzato la crisi del sistema politico italiano, ma non l’ha determinata. La crisi covava da anni e la corruzione politica era uno dei fattori, non il solo. Il sistema politico è stato corroso non solo da un personale politico usurato dal tempo ma da affaristi occulti legati spesso a poteri occulti. Per fare un solo esempio, un personaggio come Pierfrancesco Pacini Battaglia, di cui tanto si parla in questo libro. Pochissimi ‘intimi’ ne conoscevano l’esistenza, ma egli esercitava un potere corruttivo enorme, con complicità vaste in tutti i campi dell’amministrazione pubblica e della magistratura”.
Pagina 87. “In un’altra intercettazione Pacini Battaglia, parlando con un imprenditore, fa riferimento alla difficoltà di costituire fondi in nero. Poi, affrontando la questione dell’inchiesta milanese ‘mani pulite’, dice: “ti spiego, io sono convinto che… noi siamo usciti da, voi siete usciti da mani pulite o io sono uscito da mani pulite solo perchè si è pagato…”.
Pagina 93, a proposito delle verbalizzazioni dell’ex presidente Agip Raffaele Santoro: “Esiste da tempo – racconta l’ex dirigente – una sorta di ‘cartello’, quantomeno un patto di non belligeranza, tra quattro società di ingegneria, formato da Snamprogetti, Tpl, Ctip e Techint. Il garante e arbitro è il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia”. Poi: “Il racconto di Santoro resterà lettera morta. Pacini Battaglia farà la sua comparsa (una vera comparsata durata appena dieci ore, giusto il tempo di un interrogatorio) solo nell’affare dei fondi neri Eni”.
L’UOMO A UN PASSO DA DIO
Pagina 95: “In questo intreccio di mazzette resta sempre centrale la figura di Pacini Battaglia, il quale avrebbe reso possibile la costituzione di fondi neri societari all’estero, nel tentativo di rendere invisibili i beneficiari di quel denaro. Tutto questo lo scopriranno i magistrati di Perugia. Ma perchè, pur incappando ben cinque anni prima, negli affari sporchi della Tpl, Antonio Di Pietro, e con lui Gherardo Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure, sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti aveva raccontato di aver ricevuto dalla Tpl cinque miliardi, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. Due miliardi, aveva riferito Cragnotti, li aveva tenuti per sé, due erano finiti a Gardini, e l’ultimo a Necci e Pacini Battaglia. Ma ascoltato dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, Pacini Battaglia nega tutto e sconfessa Cragnotti. Ed ecco la seconda stranezza: anziché essere messo a confronto con Cragnotti da Di Pietro, Pacini Battaglia viene creduto come un oracolo e mandato a casa. Non era mai accaduto nel ‘rito ambrosiano’ officiato da Di Pietro, che un imputato, disposto non solo a confessare, ma soprattutto a fare dei nomi e a fornire dei presici riscontri obiettivi che a distanza di anni sono stati trovati, non sia stato creduto. Mentre un altro imputato, che dello stesso fatto negava tutto, venisse prima creduto e subito dopo lasciato libero di inquinare le prove. E di corrompere – secondo i pm di Perugia – diverse altre persone. Per questa brutta pagina giudiziaria Di Pietro finirà sotto inchiesta davanti ai magistrati di Brescia che nel marzo 1998 lo accuseranno, tra l’altro, di aver omesso di sviluppare, dal punto di vista investigativo, ‘come sarebbe stato necessario e possibile, attraverso rogatorie internazionali, le notizie fornite’. In altre parole la procura di Brescia raggiungerà la convinzione che Di Pietro, da pm a Milano, avesse favorito il banchiere, omettendo una serie di indagini sul suo conto e salvando di fatto personaggi come Necci. Secondo i magistrati bresciani, infatti, Di Pietro aveva revocato la rogatoria con la Svizzera che avrebbe consentito di scoprire che presso la banca la Karfinco di Ginevra, cioè la banca di Pacini, erano accesi conti intestati a diversi coindagati, tra i quali i responsabili dell’Eni e della Tlp. Ma il gip di Brescia Anna Di Martino ha prosciolto Di Pietro da tutte le accuse con la formula ‘perchè il fatto non sussiste’”.
PACINI, NECCI, CRAGNOTTI E LA MAXI INCHIESTA ENIMONT
Pagina 97. “Un’altra domanda s’imponeva, rimasta senza risposta: come mai Di Pietro lasciò Pacini Battaglia libero? Non c’era per il faccendiere, fulcro di tutti gli imbrogli dell’Enimont, quel rischio d’inquinamento delle prove tanto spesso tirato in ballo per arrestare e tenere in galera tanti personaggi dello spessore criminale decisamente inferiore a quello di Pacini Battaglia? Rischio che ordinanze del tribunale di Milano del 1 dicembre 1997 e del gip di La Spezia e di Perugia hanno confermato? E’ solo una coincidenza che anche costui fosse difeso dal solito avvocato Peppino Lucibello, amico intimo di Di Pietro, lo stesso legale per il quale i magistrati di Perugia chiederanno, senza però ottenerla, l’incompatibilità nella difesa del suo assistito? E come mai il cervello così carico di saggezza popolare del pm milanese non venne neppure sfiorato dall’idea di procedere ad una serie di confronti incrociati tra Cragnotti e Pacini, tra Cragnotti e Necci e tra Necci e Pacini? Perchè Di Pietro lasciò che un calibro da 90 come Pacini venisse interrogato da Borrelli che poco o nulla sapeva dei dettagli della vicenda di cui Cragnotti aveva parlato? Perchè, guarda caso, i nomi di Pacini, Necci e Cragnotti verranno stralciati dal processo Enimont? Perchè in questa vicenda Di Pietro non ha usato quella sua personalissima tecnica, ampiamente collaudata, e cioè tenere dentro tutti: Cragnotti, reo confesso, Necci, chiamato in correità e Pacini Battaglia, chiamato anche lui in correità? Sono andato a rileggere l’elenco dei nomi dei principali imputati del processo Enimont: non nascondo che un brivido mi ha attraversato la schiena. Alcuni di quegli imputati come Gabriele Cagliari furono letteralmente torturati psicologicamente e tenuti in carcere fino alla morte. Per suicidio. Altri, come Raul Gardini, furono minacciati senza pietà di arresto fino alla morte. Per suicidio. Altri ancora – è proprio il caso di Cragnotti e Pacini Battaglia – il carcere lo hanno visto appena (il primo) o, almeno a Milano, non l’hanno visto mai (il secondo).
Pagina 98, a proposito dei vari filoni d’inchiesta sull’alta velocità. “Nel corso di un vertice per chiarire alcune sovrapposizioni di indagine, vertice che si svolge nel palazzo di giustizia della capitale e al quale partecipano diversi sostituti di Roma e Milano, viene deciso lo sdoppiamento dell’appena nata inchiesta sull’alta velocità. Al vertice partecipano anche Giorgio Castellucci e Antonio Di Pietro. E’ stato lo stesso Castellucci, nell’ottobre del 1996, a spiegare come andarono le cose. Il magistrato romano nel ’93 aveva appena aperto il fascicolo sull’alta velocità, ma Di Pietro – racconta Castellucci – gli confidò che su quell’argomento aveva cominciato a parlare l’imprenditore Vincenzo Lodigiani, secondo il quale intorno al progetto Tav c’era una vera e propria lottizzazione tangentizia. Fu così che a Roma rimase l’inchiesta sulla correttezza delle procedure con cui era stata costituita la Tav spa di Ercole Incalza, mentre quella sugli appalti per l’alta velocità ferroviaria finì a Milano nelle mani di Di Pietro. La tranche d’inchiesta presa in carico da Di Pietro a tutt’oggi (1999, ndr) non si sa che fine abbia fatto. Di Pietro se ne spoglia quando nel dicembre 1994 abbandona la toga”.
QUELLE MISTERIOSE CARTE DA ROMA A MILANO
Pagina 99. “Sospeso Castellucci dal suo incarico, la tranche romana passa ad un altro pm, Giuseppe Geremia. Costei, per prima cosa, vuole vederci chiaro in quella strana spartizione di atti giudiziari avvenuta nel 1993 tra Castellucci e Di Pietro. Alla Geremia non era scappato un particolare: non era la prima volta che Di Pietro si appropriava di un’inchiesta nata a Roma. Era già accaduto. Era successo con l’inchiesta sui soldi sparito della cooperazione, di cui era titolare il sostituto procuratore di Roma Vittorio Paraggio. (…) L’11 giugno 1993 Paraggio aveva ricevuto un fax da Di Pietro – ma l’ex pm milanese ha negato questa circostanza – nel quale lo invitava a trasmettergli gli atti relativi alla posizione di Pierfrancesco Pacini Battaglia, che Paraggio aveva iscritto nel registro degli indagati assieme, tra gli altri, all’allora segretario del Psi Bettino Craxi, all’ex ministro degli Esteri, anche lui socialista, Gianni De Michelis e al finanziere Ferdinando Mach di Palmenstein. Nell’abitazione parigina di quest’ultimo, intestata all’attrice Domiziana Giordano, erano stati trovati documenti, alcuni dei quali si riferivano proprio ad Antonio Di Pietro. Paraggio aveva indagato Pacini Battaglia a proposito di un progetto di cooperazione che si sarebbe dovuto realizzare in Africa e di cui si occupava l’imprenditore Paolo Ciaccia, titolare della Ctip. Ma nel fax – stando alla versione di Paraggio – Di Pietro insisteva per avere le carte relative al banchiere italo svizzero. Il motivo: Pacini Battaglia, indagato anche a Milano, nell’ambito del processo Enimont, stava collaborando. Era quindi opportuno evitare qualsiasi forma di sovrapposizione. A quel punto Paraggio aveva deciso di stralciare la posizione del finanziere e l’8 luglio 1993 l’aveva inviata per competenza alla procura di Milano. (…) Basterebbe questa nuova invasione di campo di Di Pietro per far drizzare le orecchie a chiunque. Prima la faccenda dell’alta velocità in cui Pacini Battaglia ha avuto un ruolo determinante, poi quella della cooperazione, dove il pubblico ministero punta la sua attenzione proprio su di lui, sul tanto discusso banchiere. Se una coincidenza è una coincidenza, due diventano un indizio. Almeno così ragionava Antonio Di Pietro quando faceva il magistrato. Ma c’è di più, molto di più. Che Roma stesse indagando su Pacini Battaglia fin dal 1993 lo scoprono i sostituti di La Spezia Cardino e Franz. Sono loro a chiedersi che fine avrà fatto quell’inchiesta. Prendono quindi contatto con la procura di Roma, scoprendo che quegli atti sono stati inviati da Paraggio a Milano. Cercano allora i colleghi di Milano. Di Pietro non è più ormai da tempo in magistratura, è vero, ma quelle carte su Pacini Battaglia dove sono mai finite? I magistrati di Milano cadono dalle nuvole. Qui da noi sul faccendiere e sui suoi affari con la cooperazione non c’è proprio nulla. Si scopre così che quegli atti, quelle carte sono scomparsi. Spariti, volatilizzati. In altre parole non si trovano più. Risultato: certamente il più gradito a Pacini Battaglia. Per tre anni nessuno ha indagato su di lui. I magistrati di Roma perchè avevano stralciato la posizione, inviandola a Milano. Quelli del capoluogo lombardo perchè Pacini Battaglia era indagato nell’inchiesta sulla cooperazione e dell’inchiesta sulla cooperazione si occupava Roma. Ma ci sono altri atti che sono spariti. A Roma non si trovano più alcuni documenti sequestrati a Mach di Palmenstein. Già, proprio così, alcuni documenti facenti parte del dossier in cui si parla ancora di lui: Antonio Di Pietro”.
Pagina 103. “E’ così che il sostituto di Roma Vittorio Paraggio finisce nei guai. Sarà indagato dalla procura di Perugia e solo nel 1999 la sua posizione verrà archiviata. I sospetti su Di Pietro finiranno a Brescia. Archiviazione anche per lii. A scoprire l’arcano sono i pm di Perugia che scrivono: ‘ Gli atti relativi a Pacini (in tema di cooperazione) sono stati effettivamente trasmessi a Milano’, dopo che, su istanza di Lucibello, il pm Di Pietro chiese al collega Paraggio di non svolgere indagini su Pacini in quanto stava offrendo rilevante collaborazione nelle indagini svolte dalla procura di Milano”.
I 12 MILIARDI IN “PRESTITO” DAL COSTRUTTORE D’ADAMO
pag.123-124 – A Di Pietro “furono offerte tutte le occasioni, i dati materiali, le conoscenze giuste per scoperchiare tutte le pentole, anche quella gigantesca dell’Alta velocità. Eppure Di Pietro non si avvide di nulla o quasi. Mentre eccezionale fu lo zelo su altri fronti d’inchiesta da parte del magistrato di Curno. Ma dove sono finite le confessioni di Enzo Papi che dinanzi al pm Di Pietro parlò, nel maggio del 1993, delle mazzette pagate alla Fiat: ‘Il boccone più ghiotto è quello dell’Alta velocità, un affare inizialmente da 40 mila miliardi, con la Cogefar (di casa Fiat, ndr) che assume la guida di due consorzi che si riservavano una larga fetta delle risorse pubbliche. Vincenzo Lodigiani mi fece presente che i partiti chiedevano una tangente del 3 per cento’?. E dove sono finite le carte sequestrate a Lodigiani? E le sue dichiarazioni? Piccole, insignificanti distrazioni? Massima concentrazione su un intreccio di corruzione tanto complesso da far scorgere il filo, tralasciando la matassa? Oppure Di Pietro non volle scoprire alcunchè? Certo impressiona che garante dell’Alta velocità fosse – tra il 1992 e il 1993 – quel prof. Romano Prodi, con lui oggi alleato nel movimento I democratici.
Il dubbio si fa più grande quando i pm di Perugia scrivono che i risultati dell’inchiesta di Milano furono tali da ‘evitare rischi per quegli interessi alla cui salvaguardia Pacini presiede anche in nome e per conto di Necci e dei responsabili della Tpl’. E il Tribunale di Milano, il 1 dicembre del 1997, in sede di riesame, ha confermato che tra i conti di Pacini e dei suoi fiduciari e i conti dei dirigenti dell’Eni e della Tpl-Av esistevano evidenti interconnessioni. E che tutti questi conti erano stati svuotati a partire dal primo arresto del Pacini – durato poche ore – nel 1993”.
Prosegue la ricostruzione di Imposimato e Provvisionato. “Di quest’ultimo avviso sono i magistrati della Procura di Brescia che il 12 novembre 1996 ricevono per competenza territoriale da La Spezia il procedimento penale a carico di Antonio Di Pietro, il suo amico del cuore, l’avvocato Giuseppe Lucibello e il costruttore Antonio D’Adamo (amico del pm milanese, poi suo grande accusatore e beneficiato da Pacini Battaglia di munifiche elargizioni di denaro) per i reati di concorso in corruzione. Chiedendo il rinvio a giudizio di questi tre personaggi, i pm bresciani ribadiranno questo concetto: ci sono inchieste su cui Di Pietro non volle indagare per favorire Pacini Battaglia. Ammettiamo, nello svolgere il nostro ragionamento, che quest’ipotesi formulata dai pm di Brescia – a prescindere dalle valutazioni strettamente giuridiche che riguardano la rilevanza penale di determinate condotte del dottor Di Pietro – sia storicamente fondata su elementi concreti. Ecco allora un altro quesito: perchè questi dati non sono stati considerati sufficienti per una verifica dibattimentale? Tanto più che alla base delle accuse dei pm di Brescia vi era una circostanziata confessione di D’Adamo, con una serie impressionante di riscontri diretti, tra cui il ‘prestito’ da ben 12 miliardi senza l’ombra di una garanzia”.
Pagina 126, da una conversazione intercettata fra Pacini Battaglia e il suo precedente difensore, l’avvocato Marcello Petrelli. E’ Pacini che parla: “oggi come oggi noi siamo usciti da mani pulite pagando, intrafugnando. (…) quello che ti voglio dire… a me se acchiappano Lucibello e Di Pietro… hanno i soldi in Austria, io sono l’uomo più contento del mondo… vediamo di capirsi… io non ho sposato Di Pietro, né ho sposato Lucibello. A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato… a me se li buttano dentro tutti e due… mi fai l’uomo più felice del mondo”.
Pagina 127. “Il fatto certo è che Pacini Battaglia, pur inquisito dalla procura di Milano, negli anni 1993-95 non ha subito alcuna custodia cautelare. Così come è sicuro che l’indagine a suo carico venne svolta in via esclusiva , e comunque predominante, da Di Pietro (così come hanno affermato, con indiscutibile chiarezza, altri due magistrati del pool, Colombo e Greco). Altrettanto fondato è che per evitare di essere incarcerato Pacini si presentò spontaneamente al dott. Di Pietro, assistito dall’avv. Lucibello (frequentatore e commensale abituale del pm). C’è infine un’altra certezza: in concomitanza con questi fatti Pacini Battaglia provvide a rivendere, al prezzo di 4 miliardi e mezzo, all’imprenditore Antonio D’Adamo (anche lui amicissimo di Di Pietro) le azioni di una società a lui vicina, la Morave Holding. Ripetiamo: al prezzo di 4 miliardi e mezzo di lire, dopo che solo venti giorni prima le aveva acquistate dalla Atlantic Finance al prezzo doppio di 9 miliardi”.
QUELLE SCHEDE SVIZZERE GSM DA CHICCHI PACINI BATTAGLIA
Pagina 131, a proposito di telefonini. “Tra le tante schede Gsm, acquistate in Svizzera e distribuite da Pacini ai suoi numerosi amici, l’utenza Gsm n.041/892009854 è stata certamente usata da Di Pietro. Le schede Gsm svizzere avevano all’epoca una particolarità: rendevano praticamente inintercettabili i telefonini che le usavano. Queste schede erano tutte intestate a Henri Lang, autista di Pacini Battaglia. Una cosa è più che mai sicura. Né il magistrato Di Pietro, né l’avvocato Lucibello hanno mai dato una spiegazione convincente del come e del perchè sia potuto accadere che mentre Pacini Battaglia era indagato da Di Pietro, costui avesse in uso telefonini riconducibili all’indagato predisposti per evitare l’ascolto di orecchie indiscrete. (…) Perchè Pacini Battaglia, uno dei più grandi maneggioni viventi, pur essendosi già affidato ad altri studi quotati studi legali, sceglie come legale sulla piazza di Milano proprio lui, il per nulla quotato avvocato Lucibello, notoriamente legato però al famoso pm e giustamente orgoglioso di cotanta amicizia’. (…) (…) Perchè nei confronti dei conti privati di Pacini Battaglia non vennero mai concluse rogatorie internazionali? Perchè molte rogatorie richieste vennero classificate come non urgenti e quindi di ordinaria amministrazione? Perchè in alcuni casi allo stesso Pacini Battaglia venne consentito, tramite il suo legale, l’avv. Lucibello, di conoscere in anticipo le tematiche che sarebbero state affrontate nel corso degli interrogatori? Perchè nessuna seria indagine venne mai fatta nei confronti di Roger Francis, principale collaboratore di Pacini Battaglia? (…) Nel frattempo Pacini Battaglia sembrava interessato a proseguire nei suoi rapporti privilegiati con il suo amico ‘inquisitore’ divenuto ministro, liberandolo dalla presenza ingombrante di un suo collaboratore, un magistrato torinese, Mario Cicala”.
A proposito di inquisitori & inquisiti, chi non ricorda il drammatico sos lanciato da ‘O ministro in fin di vita? Quale grande amico voleva mai incontrare Paolo Cirino Pomicino prima di salutare il mondo? Il suo grande inquisitore Di Pietro, che lo aveva indagato proprio per la maxi tangente Enimont. Ma i rapporti Pomicino-Di Pietro sono ancora un’altra storia…
Nella foto di apertura Antonio Di Pietro e, a sinistra, Chicchi Pacini Battaglia
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Un commento su “Di Pietro si autocandida come sindaco per “moralizzare” Milano. Ecco la sua storia, i buchi neri e le domande senza risposta”