Si danno anche all’ippica ma galoppano sempre più spediti, i clan della camorra. Dall’inchiesta condotta dalla Dia di Napoli – uno dei pochi avamposti a indagare in modo efficace sulle piste dei maxi riciclaggi malavitosi – emerge uno spaccato delle holding criminali sempre più in grado di investire massicciamente nei settori più svariati: sport come l’ippica (scommesse clandestine annesse), bingo, sale giochi, alimentare, bar, ristoranti, centri commerciali.
Poi – si dice – la camorra “non è un elemento costitutivo della società napoletana e campana”. S’indignano sindaco e governatore, uniti nella lotta. Avrebbe comunque fatto meglio, il presidente dell’Antimafia Bindi, a sottolineare soprattutto la capillare, progressiva e ormai quasi totalizzante presenza nei gangli vitali della vita economica. A fronte di un’omertà diffusa, di una società cloroformizzata, assente, menefreghista, al massimo in vena di salottini paraintellettuali o di manifestazioncine anticamorra (spesso peraltro anche deserte), c’è un’economia legale (sic) in ginocchio, moribonda, ormai marginale, soffocata nelle spire di una sovra-economia criminale, che non ha bisogno di mercati, regole e prezzi, ma impone la legge dell’opulenza malavitosa. Aspetti antropologici a parte: come sottolineavamo giorni fa, a proposito dei “segni”, degli imprinting che – estremizzando – sarebbero degni di un Lombroso in versione riveduta e corretta. Meglio, della penna di un Pasolini, artista estremo (e avanti anni luce rispetto anche agli odierni maitre e centimaitre a penser) delle periferie urbane malate e devastate.
Di negazionismo hanno sempre vissuto e vivono le mafie. Per il prefetto di Roma Pecoraro, in sella fino a un anno fa prima del superpoliziotto Gabrielli, “di mafia a Roma non c’è traccia”. La stessa litania a Milano, prima che scoppiasse Expo. Uguale copione, per fare un solo esempio, a Modena, dove secondo le autorità di “governo” le mafie non avevano mai messo piede: tranne invadere ampie fette, al solito, dell’economia, riciclando a più non posso.
Sono copioni vecchi, stravecchi. E chi è cieco e sordo perfino oggi, figurarsi ieri, dieci, venti anni fa. Quando invece le mafie cominciavano a “salire”, ad allargare il campo d’azione, a propagarsi come un tumore maligno, a diffondere le loro orrende metastasi.
La Voce ne ha scritto a cominciare da inizio anni ’90, quando le piovre mafiose iniziavano ad allungare i loro tentacoli non solo al centro nord, ma anche all’estero, dopo la caduta del Muro di Berlino. E fu proprio la ex Ddr, la Germania dell’est di frau Merkel, uno dei primi obiettivi dei clan, allora i Licciardi di Secondigliano, pronti a profittare dell’occasione per attivarsi nel commercio, soprattutto di abbigliamento (in particolare jeans), e a pensare – già allora – ad impiantare piccole unità produttive a basso costo e alta resa: lavare i danari sporchi, d’altra parte, era già un business in sé. Poi sono arrivati i grossi e grassi affari negli svariati pezzi della ex Jugoslavia, in Albania, Romania e est proseguendo sulle vie del riciclaggio spinto.
Da noi, le prime mosse nelle verdi Umbria e Toscana: è d’inizio ’90 uno dei primi, luccicanti business, il Kursaal di Montecatini, dove troviamo gemellati clan di camorra (a quel tempo il tandem Alfieri-Galasso dell’area nolano-vesuviana) e pezzi della massoneria, con un Licio Gelli in pole position. Stessa formazione in campo, del resto, per il maxi business della monnezza, che già cresceva rigoglioso: ai primi summit fine anni ’80, in quel di villa Wanda, maison aretina del Venerabile Licio Gelli, presero parte tra gli altri Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte, per gli emergenti Casalesi, l’avvocato tuttofare Cipriano Chianese, solo dopo molti anni inquisito e “confiscato” dalla magistratura, il trafficante-imprenditore-trasportatore Gaetano Cerci. E’ in quegli stessi anni che dalla periferia vesuviana di Napoli trasferiscono a Lucca il loro quartier generale i fratelli Sorrentino, beneficiari dei più grossi appalti del dopo terremoto (compresa la realizzazione della Pozzuoli bis, il mostro urbanistico di Monteruscello), vero trait d’union tra la calante Nco di Raffaele Cutolo e l’emergente Nuova Famiglia, storici amici di ‘O ministro Paolo Cirino Pomicino.
E’ poi subito la volta della costiera romagnola, una vera ghiottoneria per i clan di camorra. Un primo segnale, alla redazione della Voce, arriva da un comitato di cittadini di Rimini, insospettito per alcune strane manovre – siamo nel ’92 – intorno ad alcuni appalti per la locale Fiera: vogliono saperne di più, in particolare, su una sigla partenopea che gareggia per l’appalto delle pulizie. E’ riconducibile agli Agizza-Romano, star in Campania proprio nelle pulizie (antipasto per i rifiuti) e per il calcestruzzo, a bordo della Bitum Beton: già sotto i riflettori della magistratura proprio per i maxi appalti di Monteruscello, un’inchiesta portata avanti con coraggio dai pm Franco Roberti (oggi vertice della Direzione Nazionale Antimafia), Paolo Mancuso (ora procuratore capo a Nola), e Luigi Gay (capo a Potenza) ma letteralmente stroncata dall’allora procuratore capo di Napoli Alfredo Sant’Elia su imput del ministro Enzo Scotti: tutto archiviato in istruttoria! La Ecologia Agizza, dopo oltre un quarto di secolo, è in prima fila nei traffici milionari di rifiuti super tossici: a novembre dovrebbe iniziare a Salerno (siamo già al quarto rinvio per “notifiche errate”) il processo Chernobyl per l’avvelenamento di interi pezzi della Campania e della Puglia (alla sbarra anche svariati mastelliani della prima ora).
Per finire il tour inizio anni ’90 di mafie & camorre formato centro nord, eccoci rapidamente in Veneto, ad esempio con i riciclaggi “liquidi” (la centrale del latte di Verona), per diramarsi quindi nel padovano; poi in Piemonte, per citare un solo caso l’assalto agli appalti dell’Istituto Autonomo Case Popolari; la Val D’Aosta, con una ‘ndrangheta a fare da assoluta apripista, come del resto succede in Lombardia.
Troppo ampia la mappa estera. Solo due esempi (oltre ai paesi dell’est già citati). Il Canada fine anni ’80, vera primizia per i clan di camorra che non vedevano l’ora di riciclare i maxi proventi derivanti dagli appalti post terremoto (e ancora una volta Monteruscello è stato un crocevia strategico – ma archiviato “per legge” – di intrecci societari e “riciclatori” proprio sulle rotte canadesi). E la Scozia inizio ’90: epicentro, stavolta, Aberdeen, dove aveva pensato bene di impiantare radici e riciclare a tutto spiano (alberghi, ristoranti, bar, night e tutto quanto fa tempo libero) il potente clan dei La Torre di Mondragone. Cercò di accendere i riflettori su quelle performance Amato Lamberti, lo storico fondatore dell’Osservatorio sulla camorra, nato a inizio ’80 e al quale collaborava concretamente Giancarlo Siani (ammazzato esattamente 30 anni fa, 23 settembre 1985): venne minacciato di morte, Lamberti, da un esponente del clan durante un comizio elettorale; oggi il capo della cosca, Augusto La Torre, è difeso dell’ex pm antimafia Antonino Ingroia.
Torniamo a bomba. Prima tutti giù dal pero a “verificare” l’esistenza stessa della camorra. Oggi addirittura a negare una endemica – e ormai patologicamente fisiologica – presenza dei clan nel Dna del tessuto economico cittadino e regionale: e lorsignori parlano di “guaglioni” che fanno bella Napoli e la Campania, della città più giovane del mondo, di pizza, mandolini, feste a mare e tric trac. E i “personaggetti” delle tante carovane antimafia a fare da adeguato, folkloristico contorno.
Ma sanno, lorsignori, di cosa è fatta l’economia di questa regione, dati Istat a parte? Hanno mai cercato di capire quel che si muove dietro i nudi dati e le crude cifre? Hanno mai afferrato qualche concetto circa le cento vie del riciclaggio, su cui cerca di far luce con sforzo ammirevole la Dia, ma con mezzi sempre più ridotti dal governo centrale? Da quella politica alla quale dà enorme fastidio che si alzino i veli sulle economie “legali” e invece paravento di maxi riciclaggi? Con tanto, appunto, di politici locali e non solo al seguito? E senza le cui collusioni difficilmente i maxi affari sarebbero possibili?
Siamo partiti dall’ippica. Settore storico per i clan: chi non ricorda le prime, pervasive presenze di personaggi di “rispetto”, fine anni ’70, addirittura, quando l’ippodromo di Agnano viaggiava sotto le insegne di “Villa Glory”? Le scommesse pallonare clandestine, ben note fin dal primo maxi scandalo del 1986, con una camorra già allora in prima linea a condizionare i risultati delle partite? Scordammoce ‘o passato, si dice a Napoli. Ma il presente è ancora più duro. E denso di camorre. E’ una novità la presenza ormai stradominante dei danari sporchi nel grande settore della distribuzione? Della ristorazione? Del tempo libero? Nella giungla delle aste giudiziarie, vero eden per cosche e faccendieri? In molteplici rami del commercio, dai carburanti al caffè ai gelati e ai surgelati? Nel campo della sanità, e in tutto il variegato mondo di appalti e subappalti sulla pelle della gente? Tanto che non pochi malinconicamente osservano: “non puoi più neanche morire in pace che ti fanno il servizio completo. Da quando entri in ospedale, al funerale, al cimitero. La vita è tutto un racket”.
E poi, la camorra non è un fatto costitutivo…
Nella foto, la commissione antimafia riunita a Napoli nei giorni scorsi
P.S. E’ il post scriptum del giorno dopo. Ci siamo accorti che forse, nel pezzo, non è emerso – o è emerso solo parzialmente – un dato fondamentale: non ci sono mafie se non ci sono politici di riferimento. Di più: la vera mafia è “istituzionale”, politica, partitica, dei capibastone elettorali. Le mafie-mafie rappresentano due momenti altrettanto forti: l’esecuzione degli ordini che arrivano dall’alto, il momento stragista, le bombe di Capaci e via D’Amelio (ma i mandanti, ovviamente, restano ancora, dopo oltre vent’anni, a volto opportunamente coperto: e sono mandanti di evidente matrice politica); e il basilare ruolo economico-finanziario, che abbiamo illustrato nel pezzo, la fase del lavaggio del danaro sporco, che gronda sangue, il riciclaggio a tutto spiano: che si fa ormai soprattutto attraverso i “colletti bianchi”, le banche, i paradisi fiscali, i “professionisti” dei cleaning internazionali. Il post terremoto ’80 della Campania ha fatto scuola per tutti gli appalti pubblici da allora in poi (fino ai grandi business che ancora continuano – un fiume senza fine – dell’Alta Velocità): imprese di “partito” a far man bassa di danari pubblici, subappalti alla camorra, faccendieri e massonerie al seguito.
Del resto, la penetrazione delle mafie negli enti locali, dai consigli comunali a quelli provinciali e regionali, è un fatto ormai scontato – e da anni – al Sud, e la Campania è in prima fila, col record di consessi pubblici sciolti, in fase di scioglimento, o sotto stretto monitoraggio. Sono certo molto più numerosi i consigli “infetti” rispetto a quelli “immuni” dal virus malavitoso. Il fenomeno, comunque, anche stavolta viene da lontano. Già a inizio anni ’90 la Voce effettuò una serie di reportage dall’hinterland partenopeo infestato dalla camorra, con i summit comunali che spesso e volentieri si tenevano a casa del boss locale. La situazione, nel tempo, è diventata sempre più endemica, e con patologie ormai croniche. Dal clientelismo spiccio d’un tempo, il salto verso l’affarismo spinto e quindi la contiguità prima, la collusione poi con i clan è diventata un fatto “costitutivo” sulla scena politica locale.
Il sindaco di Napoli de Magistris balza sulla sedia a sentire le parole della Bindi (che comunque avrebbe fatto meglio a sottolineare il ruolo-base della politica nella crescita delle mafie) e osserva che il suo Comune ha messo al bando tutte le camorre. Ma riesce a guardare un po’ oltre il suo naso, e osservare cosa succede nel devastato e stramalato hinterland napoletano? Indignatissimo il governatore De Luca, altro “cieco” sui tumori che lo circondano: ha caso dato mai una sbirciatina agli eletti nel suo consiglio regionale? Alle sue liste collegate? E al servizio tivvù di Riccardo Iacona?
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