RAZZI SHOW

Gli inviati delle Iene, specialisti nello “sputtanamento” di individui che meriterebbero corsi scolatici serali permanenti, e invece occupano “abusivamente” gli scanni del Parlamento italiano, hanno divertito e preoccupato i telespettatori del loro irriverente programma svelando il miserrimo livello culturale di deputati e senatori con domande di difficoltà elementare e risposte balorde o condite con una serie di “non so, in questo momento non mi ricordo”: deprimente. Sulla scia di quelle indagini allucinanti si è consolidata nel tempo l’adozione da parte del network La7 di un personaggio unico nel panorama dei politici improbabili, il senatore Antonio Razzi che ha occupato spazi sistematici nella satira di Crozza, che lo imita un giorno sì e uno no. Non finisce qui. L’esponente di Forza Italia che si dice prediletto fan di Berlusconi è stato protagonista unico di un’intera punta del programma televisivo “In onda” del canale di Cairo dove ha potuto dispiegare tutto il repertorio di nefandezze grammaticali e di stupidaggini in libertà. Ci si chiede: chi sarebbe Razzi, se non un’anomalia trascurabile della politica italiana senza l’ossessiva attenzione di La7 per le sue pulcinellate? E un secondo quesito. Durante il talk show “In onda” gli spettatori hanno potuto “godere” di un filmato girato nella Corea del Nord, ultimo caposaldo del comunismo estremo, che mostra Razzi in formato discoteca, impegnato in travolgenti balli con donzella locale: che ci faceva uno come lui nel Paese agli antipodi con la sua militanza in Forza Italia e a che titolo, in sala, assisteva all’esibizione il leghista destrorso Salvini? Bisognerebbe chiederlo a Kim Jong-un, dittatore della Corea del Nord.

 

Il figlio negato

E’ incomprensibile, se si utilizzano i normali canali di valutazione dei comportamenti, l’azione vigliacca compiuta da Martina Levato e Alexander Boettcher, gli amanti che hanno aggredito con l’acido Pietro Barbini, ex di Marina. Il gesto deve essere catalogato nel capitolo alterazioni della normalità, aggravate da istinto a delinquere. Nessuna giustificazione e giusta la condanna a quattordici anni di carcere. Martina e Alexander hanno concepito un figlio, nato in una clinica milanese presidiata da agenti penitenziari. Lo scenario del dopo parto propone nell’immaginario collettivo il magico momento della simbiosi emotiva e affettiva madre-figlio e l’immagine relativa è del neonato tra le braccia di chi l’ha partorito. Non è necessario ricorrere a pareri professionali per sapere che il contatto compensa positivamente lo “choc” del bambino, privato del comfort vissuto nell’utero materno e alle prese con l’esordio nella vita esterna. Sembra che non ne sia al corrente chi (tribunale dei minori) ha separato Martina Levato dal figlio dopo appena cinque minuti: impedita anche la prima poppata, ritenuta importante dalla medicina di settore. La disumana decisione rientrerebbe, secondo il tribunale, nella norma prevista in questi casi e la motivazione è ricordata senza vergognarsene, oltraggioso esempio di burocratese che solo legislatori senz’anima hanno la sfrontatezza di adoperare in questo caso di assurda frettolosità decisionale. Non è noto il dolore della madre del piccolo, guardata a vista dagli agenti, sono dure e al tempo stesso commoventi le parole del padre di Martina: “Una barbarie. Tremendo il dolore per la brutale separazione” e della suocera che ha denunciato l’impedimento per il figlio Alexander di assistere al parto, l’assurdità di venire a conoscenza della nascita del figlio dalla televisione: “Chiedo umanità per il bambino appena nato”, ha commentato. A quale destino va incontro il piccolo Achille (questo sembra il nome scelto) sarà deciso di nuovo dal Tribunale dei minori: lo lasceranno crescere con la madre fino all’età di tre anni, in una struttura idonea, lo affideranno ai nonni, disposti a occuparsene o lo proporranno per l’adozione? Qualunque sia il futuro del bambino, l’esordio nella vita testimonia esemplarmente come la rigidità nell’interpretazione di norme e leggi possa trasformarsi in cinica disumanità.

 

 

Il solito Salvini

Quel fine dicitore che risponde al nome di Salvini, leghista-razzista della destra integralista che più non si può, fenomeno presumibilmente anomalo in un Paese democratico, rivolto al vescovo Galantino ha pronunciato questa frase elegante, dignitosa come è richiesto a un leader politico: “I vescovi non rompano le palle ai sindaci…”. L’exploit nello scenario di Ponte di Legno, terra leghista, dove il giornalista Del Debbio e Salvini hanno gareggiato negli insulti a monsignor Galantino, schierato per l’accoglienza ai migranti. Salvini, espressione volgare a parte, ha insinuato anche che se c’è qualche vescovo con il portafoglio pieno (allusione a presunti profitti della Chiesa per l’ospitalità nei centri di accoglienza) si candidi con Vendola anziché parlare al posto di papa Francesco.

 

 

Una recente immagine del senatore Razzi

 

 


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