DI PIETRO COME SCHETTINO – L’ARBITRATO CHE AFFONDA IL PAESE

Una cifra stratosferica. Pari a una manovra Iva. Oppure a tutte le spese per le infrastrutture. O ancora a un pezzo del default greco. Dobbiamo pagare 1 miliardo e 300 milioni a uno dei big degli appalti da primissima repubblica, il re marchigiano di strade & mattoni Edoardo Longarini, per via di un folle arbitrato deciso dallo “Stato” contro se stesso.

L’incredibile, kafkiana vicenda viene ora drammaticamente alla ribalta per il nostro erario, dopo un maxi contenzioso vinto da Longarini, che ora riscuote. A rischio i destini dei nostri trasporti, cantieri che possono chiudere da un giorno all’altro, ferrovie secondarie al collasso. E tutto perchè qualcuno, a nome dello Stato, ha deciso di “suicidarsi” e consegnare la cassa, con le chiavi, al super mattonaro amico, un tempo, del ministro dei lavori pubblici Giovanni Prandini. Il ras degli appalti fine anni ottanta, uno della “banda dei quattro” (gli altri erano ‘O ministro Paolo Cirino Pomicino, il salernitano Carmelo Conte e il pli Franco De Lorenzo, Sua Sanità) secondo la colorita definizione di uno che di Dc se ne intendeva (e raro galantuomo dello scudocrociato che fu), Guido Bodrato.

Ma torniamo all’arbitrato killer. La Voce ne ha già scritto ad aprile (https://www.lavocedellevoci.it/?p=2124), ora denunciano il maxi scandalo – pressochè silenziato dai media nazionali – i Cinque Stelle, unici nel deserto politico a puntare i riflettori su una vicenda ai confini della realtà: lo hanno già fatto un paio di volte, relatore la tenace Donatella Agostinelli, ma senza ottenere mai una risposta da un ministro di questo sfasciato e corrotto paese. Una settimana fa, il 7 luglio, sono tornati alla carica, con un’interpellanza corposissima (che potete leggere in allegato): dopo muri di gomma alzati dai suoi predecessori, è ora atteso alla risposta il neo ministro delle Infrastrutture Graziano Del Rio.

In tutta la vicenda c’è un protagonista assoluto, Antonio Di Pietro, che varò quell’arbitrato da suicidio per lo Stato e arci favorevole per la controparte privata, ossia la Adriatica Costruzioni di Longarini. Ma perchè il nome di Di Pietro, nelle pochissime ricostruzioni giornalistiche, va regolarmente in soffitta, dimenticato in un cantuccio? Così accade, ad esempio, nel reportage di Stella-Rizzo per il Corsera di un paio di mesi fa. Unico quotidiano a tirare in ballo l’ex pm di tutte le moralizzazioni, Libero, che in un’inchiesta di Giovanni Amadori chiede al contadino-proprietario, tra un’aratura e l’altra dei suoi terreni: “Ricorda quella brutta storia?”. “No”. Amen.

L’ex pm del pool milanese negli ultimi anni – compresa un’apparizione ad una delle ultime puntate di Michele Santoro sugli scandali Mose ed Expo – si è sempre battuto con fierezza contro gli arbitrati, nei quali – lo sanno anche le pietre, oltre che Di Pietro – la parte pubblica, ossia lo Stato, soccombe nel 95 per cento dei casi, come sottolineano con rigore Stella e Rizzo nel loro reportage. Sorge perciò spontanea la domanda: perché mai l’allora ministro delle Infrastrutture nel governo Prodi fortissimamente volle quell’arbitrato suicida? Anche contro il parere dell’avvocatura di Stato? Mistero numero uno, che il ministro Del Rio nella prossima risposta alla Camera e poi la magistratura, contabile e civile, farebbero bene a chiarire. Quali le reali motivazioni di quell’arbitrato? Come mai una volpe come Di Pietro si consegna – o meglio consegna i conti pubblici – a uno strainquisito e condannato per Mani pulite come Longarini? Misteri. Come mai – sottolineano i grillini nella loro fresca interpellanza parlamentare – “con atto B3/3149 del 28 luglio 2006 tra il Ministro Di Pietro e Longarini viene stipulata una convenzione d’arbitrato in materia non contrattuale con la quale si stabiliva che la ‘futura controversia’ relativa alla quantificazione e alla liquidazione dei danni sia decisa da un collegio di tre arbitri rituali?”. E puntano l’indice: “Appare agli interpellanti ‘stupefacente’ definire ‘futura’ una controversia che è iniziata anni prima”. E allora, cosa c’è mai sotto?

Altro quesito. E’ normale che nel ristretto pool dei superpagati arbitri vi siano due amici dello stesso Di Pietro, ossia Domenico Condello e Ignazio Messina, che oggi è addirittura il segretario di Italia dei Valori? La parcella – del tutto anomala e supercontestata dai grillini – degli arbitri ammonta alla stratosferica cifra di 12 milioni di euro. Equamente spartiti dagli arbitri: arbitri “a perdere” nel caso dei “ministeriali” (e due dipietristi, appunto, in formazione). Si chiedono, nell’interrogazione, oggi i Cinquestelle “come sia stato possibile che a fronte di un petitum di 300 milioni di euro il collegio arbitrale abbia discusso su una pretesa risarcitoria del Logarini moltiplicata di 16 volte e pari a 4,8 miliardi di euro senza nulla eccepire e che in apparente contrasto con il decreto legislativo 163 del 2006 i Collegi arbitrali abbiano emesso ordinanze per la liquidazione dei propri compensi di gran lunga superiori al tetto dei 100 mila euro stabilito dalla legge e fino a 14 milioni di euro nel caso del lodo di Ancona”.

Da un mistero all’altro, eccoci ad un altro nome – a quanto pare – strategico nell’affaire, e che ora viene alla ribalta proprio grazie all’interrogazione dei 5 Stelle. Quello dell’ex provveditore alle Opere pubbliche della Campania, e soprattutto top manager al ministero delle Infrastrutture, Mauro Mautone. Nell’interpellanza firmata da Donatella Agostinelli e dai colleghi grillini, infatti, ci si chiede espressamente “sulla base di quali indirizzi un direttore del ministero, ingegner Mauro Mautone, abbia firmato, in data 22 maggio 2008, la convenzione sottoscritta con il signor Edoardo Longarini, per devolvere la controversia relativa al Piano di ricostruzione di Macerata al collegio già costituito per il Piano di Ariano Irpino e che il collegio abbia potuto dichiarare di accettare, come formalmente ha accettato con la sottoscrizione del verbale, l’incarico di risolvere la controversia relativa al piano di ricostruzione di Macerata”.

Siamo quindi a Mautone. Ecco come veniva descritto dalle agenzie a fine 2008: “uomo di fiducia dell’ex ministro delle infrastrutture Di Pietro, da lui fortemente voluto alla direzione dell’edilizia statale: una carica che venne rinnovata proprio il giorno prima che cadesse il governo Prodi”. Arieccoci. Il governo Prodi – è cronaca giudiziaria di questi giorni, con tanto di condanna per Silvio Berlusconi, impegnato a comprare non solo calciatori per il Milan, ma anche parlamentari dalle opposizioni (sic) – venne venduto da Sergio De Gregorio, reo confesso, e confesso possessore del bottino da 3 milioni di euro (che fine avranno mai fatto?), due in nero e uno al suo movimento per gli Italiani nel mondo. Caduto, quell’esecutivo, sulla via di Ceppaloni, poco importa; o per via delle sceneggiate bertinottiane, chi se ne frega. Ma per la giustizia di casa nostra cadde per quel voto di mister De Gregorio: il quale – nessuno però se lo domanda – come mai era stato folgorato, poco prima, sulla via di Pietro? Come mai il sempre craxian-berlusconiano De Gregorio riesce ad “ammaliare” il super pm poi leader dell’Italia dei Valori? Mistero.

Non è un mistero che lo stesso De Gregorio dichiari il 25 settembre 2008 al Velino, guarda caso agenzia di stampa parasocialista, che il figlio del pm, Cristiano Di Pietro, all’epoca consigliere provinciale a Campobasso, risulta intercettato e coinvolto in un misteriosa inchiesta. Ecco il sasso nello stagno. Nel giro di qualche giorno il mistero – si fa per dire – si chiarisce. E viene a galla l’inchiesta della procura di Napoli sui mega appalti nelle opere pubbliche, coinvolto l’allora provveditore, Mauro Mautone. Vengono fuori alcune intercettazioni telefoniche, brutte storie di ricatti, di milioni, di appalti. In ballo c’è il trasferimento di Mautone, i suoi rapporti con il rampollo dell’ex pm, una serie di favori – a quanto pare – richiesti. E’ l’inizio di una Tangentopoli partenopea. In un report d’agenzia, anche lady Mautone alza il tiro: “la moglie invita il marito a buttarla sul ricatto al figlio, che è l’unico sistema”. Poi fa capolino un amico comune, tal Mauro Caiazza: “è importante tenere il ministro sotto!”. Del resto, dalla stessa procura partenopea filtravano i contatti Mautone-Di Pietro junior che “hanno assunto un contenuto alquanto ambiguo”. E mai chiarito, dai colleghi partenopei dell’ex pm. Mentre a quel tempo la Dia indagava a proposito delle richieste di Cristiano di “affidare incarichi a persone da lui segnalate anche al di fuori degli ambiti di competenza istituzionale” e di presunti interessi “in alcuni appalti e su alcuni fornitori”.

Un aplomb britannico, quello di Di Pietro, all’epoca: “Sapete che vi dico? E che me ne frega! Buon lavoro ai magistrati che fanno il loro lavoro. Vadano avanti”.

C’è solo da sperare che vadano avanti, parecchi anni dopo, altri magistrati, forse un momentino più coraggiosi, per far luce su quell’arbitrato. Su quei protagonisti. Su quelle nomine. Su quelle parcelle. Sui quei rapporti. Su quei soldi – quei vagoni di miliardi pubblici – buttati al vento mentre l’Italia, oggi, muore.

 

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