Ora è libero. Ma ha scontato 16 anni di galera. Innocente. Hashi Omar Hassan era stato condannato dalla nostra “giustizia” a 26 anni per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Alcuni mesi fa il suo grande accusatore Ahmed Ali Rage, da Londra, ha improvvisamente rivelato: “Sono stato pagato per accusarlo. Quel giorno a Mogadiscio nemmeno c’ero”. A quanto pare, comunque, Hashi non è uscito perchè non c’entrava niente con quel crimine ancora impunito, ma per un semplice “calcolo della pena”: scontati 16 anni, indultati 3, 4 abbonati per buona condotta, ora ne rimangono altri 3, che dovrà svolgere con i “servizi sociali” a Padova, dove era recluso.
La madre di Ilaria lancia un ultimo, disperato appello: “ho già vissuto abbastanza, ma prima di andarmene voglio giustizia per Ilaria e Miran. Ci sono stati troppi depistaggi e complicità. Basta”.
Che Hashi c’entrasse come il cavolo a merenda nel duplice omicidio lo sapevano anche le pietre di Mogadiscio. Solo la giustizia italiana no.
Undici anni fa, maggio 2004, la Voce ha incontrato l’avvocato di Hashi, Douglas Duale, nel suo studio di Roma, a un passo da piazza Cavour, dove ha sede il palazzaccio della Cassazione. Disse poche cosa, ma molto precise Duale: “Ma quale presunto e presunto autore materiale dei delitti! – sbottò il legale somalo – il mio assistito non c’entra assolutamente niente, come stiamo dimostrando attraverso testimonianze inoppugnabili”. Si riferiva, ad esempio, a quella di un giornalista americano che “precisa l’assoluta estraneità del giovane Hashi”. Parlò poco, Duale, ma mostrò molte foto: fusti, bidoni di grosse dimensioni, anche colorati di rosso, su una spiaggia, anche nel deserto. E lungo l’arteria somala che da Garoe porta a Bosaso.
Illuminanti dettagli anche da un altro legale, Domenico D’Amati, da sempre al fianco della famiglia Alpi: nelle sue verbalizzazioni davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta istituita per far luce (sic) sul caso, D’Amati parlò subito di pista “rifiuti” e nelle sue parole c’era un preciso riferimento alla “strada Garoe-Bosaso”.
Sulle inchieste di Ilaria e Miran ha verbalizzato due volte una collega e amica, la giornalista Rita Del Prete. Una prima alla Digos di Roma, 18 novembre 1997; una seconda proprio alla commissione parlamentare, nell’audizione del 25 maggio 2004: “Ricordo che una volta nel 1993 Ilaria mi parlò di una strada sita nella zona di Garoe, che secondo lei cominciava e finiva nel nulla e che serviva probabilmente ad occultare le scorie radioattive”.
Un altro collega, Alessandro Rocca, nell’audizione del 5 ottobre 2005, raccontò: “il materiale arrivava dal porto su una chiatta. Poi andava in un campo base vicino all’aeroporto dove lo caricavano su camion più grandi per portarlo nei ‘uadi’ dove veniva interrato. In uno di questi uadi hanno detto che la buca era gigantesca, nel senso che i camion andavano direttamente dentro e scaricavano alla rinfusa i fusti, questo materiale misto a bitume di scarto”.
E l’ultima missione di Ilaria e Miran – tardo pomeriggio del 15 marzo 1994 – fu proprio un sopralluogo lungo la Garoe-Bosaso. La conferma viene da un appunto contenuto nell’ultimo notes rosso dove Ilaria annotò l’intervista con il sultano di Bosaso. Altri notes, e soprattutto le cassette registrate sul lavoro effettuato a Bosaso, però, sono miracolosamente spariti; così come la macchina fotografica di Ilaria. Interrogato dalla stessa commissione Alpi, il sultano di Bosaso, Mussa Bogor, a stento ammetterà: “Non ho visto, ma ho sentito dire che in qualche posto della Somalia durante la costruzione della strada Garoe Bosaso era stato insabbiato del materiale tossico”. Niente più.
Un’inchiesta della Voce, “Da Alpi agli Appalti”, marzo 2004, puntava i riflettori su sigle & affari. “Cooperazioni, armi, rifiuti. La storia della presenza italiana nella Somalia dell’amico Siad Barre, fra un tintinnar di miliardi pubblici che vanno ad ingrossare le tasche di imprenditori, affaristi, faccendieri, politici, alla faccia dello sbandierato ‘aiuto’, anche in quel caso più che mai ‘umanitario’”. Copioni che ritroviamo oggi, ‘Mafia capitale’, business a base di coop & solidarietà.
La Voce ricostruiva una storia, quella degli appalti miliardari per la realizzazione di “pozzi” finanziata con i soldi del FAI, Fondo aiuti italiani. Una bella fetta, 22 miliardi di vecchie lire, era andata al gruppo Techint. Una società, a quel tempo, tutta da scoprire: perchè sul ponte di comando c’erano Gianfelice Rocca, oggi leader degli industriali milanesi e da sempre in rampa di lancio per la poltrona di numero uno a Confindustria; Paolo Scaroni, che poi passerà a presiedere il colosso Enel (sua cugina era la parlamentare psi Margherita Boniver); e i fratelli Giuseppe e Ottavio Pisante, a quel tempo gemellati con un altro colosso sul fronte dei rifiuti, il gruppo partenopeo dei fratelli Colucci, in sella a Waste Italia. Appalti che finiscono nel mirino della magistratura (poi tutto, al solito, in una bolla di sapone) ma anche al centro di una querela, per uno dei pochi giornalisti ficcanaso, l’allora inviato del Corriere della Sera Massimo Alberizzi, colpevole di aver ricostruito alcuni passaggi poco chiari – del resto denunciati da un ex funzionario Techint, Davide Cafiero – in tutta la trama, che arrivava fino al gruppo Gavio, oggi re di appalti e concessioni autostradali nel nostro Paese. Sottolineava Alberizzi, undici anni fa: “Ha ragione il padre di Ilaria quando dice che la figlia stava indagando sulle malefatte della cooperazione italiana in Somalia, sui traffici di armi e sulle connivenze dei Servizi segreti, o almeno parte di essi, con strani personaggi in cerca di affari poco puliti nel Corno d’Africa”.
Una bolla di sapone, dicevamo. Del resto, che fine ha fatto la maxi inchiesta della procura di Roma, pm Vittorio Paraggio, sui maxi affari della cooperazione pro Africa? Inquisiti eccellenti – inizio anni ’90 – i vertici del garofano, da Bettino Craxi a Gianni De Michelis (grande amico dei Pisante), fino al finanziere Ferdinando Mach di Palmestein e al faccendiere italo elvetico Francesco Pacini Battaglia. E il nome di quest’ultimo, per incanto, sparirà dalle carte, dopo il passaggio dei fascicoli da Roma a Milano. Dal porto delle nebbie a Mani pulite: “su istanza di Giuseppe Lucibello, il pm Antonio Di Pietro chiede al collega Paraggio di non svolgere indagini su Pacini in quanto stava offrendo rilevante collaborazione nelle inchieste svolte dalla procura di Milano”, come ricostruiscono Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato in “Corruzione ad alta velocità”.
Ma torniamo al giallo senza fine di Ilaria e Miran. Sulla pista dei maxi traffici a base di armi e rifiuti super tossici importanti tasselli vengono forniti dal dossier firmato proprio dai genitori di Ilaria, Giorgio Alpi e Luciana Riccardi, e da Mariangela Gritta Grainer, dal titolo “L’omicidio di Ilaria Alpi – Alta mafia fra coperture, deviazioni, segreti”, contenuto nel volume “Giornalismi & mafie” curato, nel 2008, da Roberto Morrione. Ecco alcuni tra i passaggi più significativi.
Si parte proprio dalle anomalie della condanna di Hashi, della “costruzione di un capro espiatorio”, di “sentenze contrastanti”, della già palese inattendibilità dell’unico teste d’accusa, “Rage detto Jelle” che – incredibile ma vero – “non testimoniò ai processi”: infatti, “venti giorni prima dell’arrivo a Roma di Hashi, Jelle aveva lasciato la sua residenza ‘protetta’ e si era reso irreperibile”. Ora è più chiaro da chi era ‘protetta’ quella residenza… . Altro incredibile ‘buco nero’, due testimonianze-base mai raccolte. Così scrivono i genitori di Ilaria: “Perchè il dottor Giuseppe Pititto è stato estromesso dall’inchiesta proprio in un momento delicato e di possibile svolta nelle indagini? Il dottor Pititto, in collaborazione con la Digos di Udine, aveva fatto giungere in Italia i due testimoni oculari, Ali Abdi e Nur Aden, l’autista e l’uomo di scorta ma non li ha potuti interrogare”. Perchè? Nessuno lo ha mai spiegato. Ancora più esplicito, già nel 2004, l’avvocato D’Amati: “Ad un certo punto Pititto, che lavorava molto bene, viene sostituito. Fa delle dichiarazioni pesantissime. Non solo viene revocata la sua delega, ma anche alla Digos di Udine. Se si scopre il reale motivo per cui Pititto è stato allontanato dalle indagini è possibile arrivare molto vicino alla verità”.
E ancora, sempre dal j’accuse 2008 dei genitori di Ilaria. “La materia dello smaltimento dei rifiuti (attualissima e inquietante, legata alla situazione campana, ma non solo) è posta in stretta connessione con quella delle armi, sia per il riferimento a scorie nucleari e radioattive, sia per l’esistenza di accordi criminosi per cui le fazioni somale in guerra tra loro accettavano, e accettano, i rifiuti in cambio di armi”.
A proposito di quel tragico pomeriggio del 15 marzo 1994. “La strada Garoe-Bosaso fu percorsa da Ilaria e Miran dopo aver intervistato il sultano di Bosaso. L’ingegner Vittorio Brofferio, che aveva diretto per un periodo il cantiere per la costruzione di quella strada, ha testimoniato in commissione della proposta avanzatagli da Giancarlo Marocchino di interrare, dietro congruo compenso, fusti sigillati sotto la strada, proposta che fu dall’ingegnere rifiutata”.
Ancora. “Un filone investigativo sui traffici di rifiuti tossici verso la Somalia è stato svolto dalla procura di Asti e ha riguardato Marocchino, Ezio Scaglione e altri, i loro affari e accordi finalizzati all’importazione di rifiuti pericolosi. Scaglione doveva procacciare clienti in Italia e Marocchino occuparsi del nulla osta delle autorità locali e fornire il trasporto. Esiste addirittura un contratto firmato e l’autorizzazione, un decreto presidenziale del 19 agosto 1996 di Ali Mahdi, con prezzi e condizioni per l’invio di 5.000 tonnellate (per i primi tre mesi) di rifiuti tossici”. A quanto pare, l’interlocutore d’affari di Ali Mahdi “era una società che aveva sede in Svizzera”. Si trattava di “un accordo che prevedeva un compenso di diversi milioni di dollari e che si sarebbe concluso nel 2011 per trasportare rifiuti tossici e nocivi scaricandoli in Somalia”.
Ma c’era un altro nome “bollente” in quel j’accuse. Leggiamo la ricostruzione dei coniugi Alpi, a proposito delle indagini di un pm scomodo, Francesco Neri, che voleva vederci chiaro su traffici di rifiuti & sparizioni di navi lungo le coste calabresi. Neri scopre un certificato di morte di Ilaria contenuto “in una cartella di colore giallo intitolata ‘Somalia’, insieme a corrispondenze sulle autorizzazioni richieste al governo somalo, ad altre informazioni su siti e modalità di smaltimento di rifiuti radioattivi, durante una perquisizione a casa di Giorgio Comerio, definito noto trafficante di armi e coinvolto secondo gli investigatori nel piano per smaltire illecitamente rifiuti tossici nocivi. Sarebbe il creatore, a detta dello stesso Neri, della holding ‘Oceanic disposal management’ che prevedeva la messa in custodia di rifiuti radioattivi delle centrali nucleari in appositi contenitori e il loro ammaramento”.
Lo smaltimento delle scorie radiottive, il “decommissioning” delle centrali nucleari, è oggi uno dei più grossi, e costosi, problemi sul tappeto nel nostro Paese, di cui è meglio non parlare: festeggiando, invece, la giornata di “Centrali porte aperte” per ammirare quanto siano belle e sicure.
A quanto pare, mister Comerio è in piena attività. Quartier generale in Tunisia, nell’area di Biserta. Nel pedigree spunta un fresco business: a bordo della sua CNT (Constructions navales tunisiennes) avrebbe messo su un “cantiere per la costruzione di barche e gommoni nella località mineraria di Zaribah”. Lo precisa una nota dell’Aisi, il servizio segreto civile, che ha svolto un’attività d’intelligence sul coinvolgimento di italiani “nella fornitura di imbarcazioni destinate all’immigrazione clandestina dal Nord Africa”, individuando in Comerio un tassello strategico. Dopo le scorie radioattive, i migranti: che fiuto!
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