METRO’ A NAPOLI, PRIMA SOTT’ACQUA POI SOTTO PROCESSO

Metrò di Napoli, continua la “sceneggiata”. Dopo l’inaugurazione in pompa magna della stazione dell’arte a piazza Municipio, alla prima pioggia estiva il sistema è andato in tilt. Come al solito mega allagamento, un fiume d’acqua che corre da piazza Garibaldi fino a Palazzo San Giacomo Un copione che si ripete: disagi, ma anche pericoli, per i cittadini. Il più caro di sempre, il metrò partenopeo: 300 milioni di euro a chilometro, il doppio rispetto a Roma, il triplo se raffrontato al leggermente più complesso tunnel sotto la Manica (unico elemento in comune: finire sott’acqua). E anche il più “eterno”: il primo cantiere aprì quasi quarant’anni fa, 1976. Fra pochi giorni, poi, qualche grattacapo in arrivo per imprenditori, progettisti, tecnici comunali: il 22 giugno, infatti, udienze preliminare al tribunale di Napoli per il crollo, due anni fa, di un palazzo storico alla Riviera di Chiaia, causato da “difetti di costruzione” in alcune strutture della linea 6, che squarcia il centro cittadino.

Di seguito pubblichiamo alcune considerazioni di Riccardo Caniparoli, geologo, da molti anni in prima linea nel denunciare scempi e lavori che mettono a rischio il territorio, già coautore de “La Metrocricca”.

 

Il territorio di Napoli non è adatto ad un’efficiente rete metropolitana sotterranea per la sua stratificazione storico-archeologica, per la presenza di terreni neonati non consolidati e di dinamiche endogene riferibili all’attività vulcanica dei territori non ancora esaurita quali: Sorgenti termali, Fumarole, Mofete, Bradisismo.

Nel caso della linea 6, i segnali di rigetto dell’opera si sono già manifestati con il sollevamento della falda e con l’impaludamento progressivo delle zone circostanti, mentre in altre zone si abbassa il suolo e in altre ancora vi sono lesioni ai fabbricati, voragini, allagamento di grotte ecc.

Il fenomeno degli allagamenti è causato, come avevo ipotizzato già 22 anni fa, dal blocco del deflusso dell’acqua dolce. Tale blocco non è causato da eventi naturali, ma dalla costruzione della galleria della linea 6 che, nella sua struttura e nel modo in cui è stata progettata e posizionata, svolge impropriamente, e in maniera del tutto innaturale, la funzione di una diga sotterranea che si oppone al libero scolo in mare delle acque di falda.

Lo scavo della galleria, inoltre, proprio perché è stato realizzato molto in profondità ha intercettato anche il terzo flusso delle acque che circolano nel sottosuolo napoletano: si tratta del flusso delle acque artesiane, di origine vulcanica, acque che i napoletani conoscono come acque del Chiatamone.

Quest’acqua che rappresenta una risorsa naturale di notevole pregio e fa parte da millenni del patrimonio, oltre che economico, storico-culturale della Città, oggi si scarica in fogna. Va precisato che, per legge, non si può scaricare nelle fogne l’acqua di falda, a maggior ragione se è acqua termale. A questo proposito, l’Ansaldo ha sempre dichiarato di avere l’autorizzazione a farlo, ma tale licenza, ad oggi, non è mai stata mostrata. Al blocco del flusso di acqua dolce sotto la Riviera di Chiaia, si aggiunge anche lo scarico in fogna della falda artesiana: tra un po’ la Villa comunale diverrà un deserto dei tartari; questo è lo scenario che, per i cittadini napoletani e per tutti coloro che hanno a cuore la città, si sta preparando.

Una qualsiasi opera antropica, inserita nell’apparente disordine della natura, altera uno o più parametri che regolano la dinamica degli equilibri naturali; ma se questa opera si inserisce assecondando il naturale processo evolutivo e indirizzando i fattori che ne regolano gli equilibri verso l’ordine, si ottiene, come risultato primo, l’assimilazione e l’armonizzazione dell’opera nell’ambiente.

Al contrario, se l’opera si pone in contrapposizione con l’evoluzione degli equilibri naturali, l’ecosistema ambientale genera delle forze tali da spostare l’equilibrio verso un disordine reale che innesca dei fenomeni di rigetto e, di conseguenza, si originano le condizioni favorevoli all’evento calamitoso. Seguendo questa logica s’individua il disastro quale effetto indesiderato ed imprevisto dell’intervento antropico. Da questo assunto le “calamità” non sono mai “naturali”, ma queste sono generate sempre da azioni dell’Uomo.

Se avvengono certi disastri non si può incolpare la “Natura matrigna”, ma l’arroganza e la presunzione di quella scuola di pensiero, affetta da deliri di onnipotenza, che considera il territorio trasformabile all’infinito, il luogo in cui qualsiasi intervento si può realizzare e nessuna opera è impossibile. Anzi, se certe opere non si realizzano, per i fautori di tale scuola di pensiero, è solo perché non vi sono le risorse economiche adeguate.

Questa logica ha portato i territori ad elevata antropizzazione ad essere, nel contempo, i più sensibili, delicati e prossimi al collasso, lì dove gli equilibri naturali sono resi precari e instabili, così compromessi e fragili che basta un evento o l’introduzione di un qualsiasi elemento perturbatore a metterne in crisi l’ecosistema con un effetto “Domino”. La natura non ragiona con i numeri, ma in termini di cause ed effetti, perciò bisogna rimuovere le cause per non far ripetere gli effetti.

 

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