Aveva già scritto un testo fondamentale, insieme a Ferdinando Imposimato, sui misteri del caso Moro, con “Doveva Morire”, edito da Chiarelettere nel 2008: una incredibile ricostruzione di quella tragedia che ha indelebilmente segnato i destini del nostro Paese. Ora Sandro Provvisionato esce con altre pagine imperdibili, pubblicate ancora per Chiarelettere e firmate con Stefania Limiti, “Complici – Caso Moro – Il patto segreto tra Dc e Br”. Sarebbe opportuno, secondo noi, aggiungere un’altra parola magica per formare un inarrestabile trio d’epoca: Usa. Perchè a nostro parere, fra le tante circostanze inedite narrate, c’è questo filo rosso che tiene il tutto: ossia la supervisione a stelle e strisce, la capacità degli Stati Uniti di pilotare quei fatti, indirizzarli secondo i suoi voleri, i veri pupari capaci di muovere i fili del copione, gestendo le marionette sulla scena: nel caso la Dc e le Br (queste ultime strumento esecutivo di sanguinosi percorsi). Il tutto, ovviamente, via Servizi, con un superpatto tra la Cia e il Sisde dell’epoca a farla da padrone.
Un copione, del resto, che arriva fino a questi anni, con i nostri Servizi – come insegna una per tutte le vicenda Abu Omar, fino alla recentissima ‘uccisione ‘coperta’ del cooperante italiano in Pakistan – comoda propaggine operativa.
Vediamo, allora, in “Complici”, alcuni tra i passaggi salienti che documentano la grande regia statunitense lungo tutta la vicenda Moro. Partiamo dalle parole, pesanti come macigni, pronunciate a marzo di quest’anno dall’allora vicesegretario dc Giovanni Galloni: le ha raccolte un quotidiano on line, “Il domandi d’Italia”, tutti i media nazionali allineati e coperti nel silenzio più tombale, fanno bene Limiti e Provvisionato a riprenderle. Galloni rivela che Moro, pochi giorni prima del sequestro, gli aveva confidato “di aver avuto notizia dai nostri servizi di sicurezza che gli americani e gli israeliani, informati sul conto delle Brigate rosse, avevano nascosto alle autorità italiane quanto era giunto a loro conoscenza. Se ci fosse stata collaborazione, probabilmente, avremmo scoperto in tempo utile i covi dei gruppi terroristici. Moro con me si dichiarò molto preoccupato. Certamente intuiva che dietro le manovre dei brigatisti si poteva anche intravedere l’ombra di potenze straniere. Abbiamo constatato, nei cinquantacinque giorni di prigionia, di quali copertura potevano godere i vari Moretti, Gallinari, Morucci. La dinamica dell’eccidio di via Fani – con l’aiuto dei paesi amici potevamo evitarla – rivela una capacità di esecuzione altamente sofisticata. Ancora bisogna capire quanti uomini ci fossero, quali dispositivi di comando entrarono in funzione, cosa sia realmente accaduto, a chi fece realmente capo la regia dell’operazione”.
Ed è proprio la “struttura” del commando Br a suscitare forti dubbi. “Quella mattina – scrivono gli autori – non era composto solo da dieci brigatisti, ma ben supportato da elementi estranei che parteciparono in maniera attiva”, “oscure presenze in veste di osservatori, ma anche di facilitatori, di persone che con l’eversione armata non c’entravano nulla, semmai puntavano ad una diversa azione eversiva, per così dire ‘statale’”.
Dal commando per il rapimento, alla bollente gestione della trattativa il passo non è poi così lungo. Ed eccoci all’inviato speciale dagli Usa, quello Steve Pieczenik che già campeggiava in “Doveva Morire”, il normalizzatore. “Cossiga non parlerà mai degli uomini che si era ritrovato intorno al Ministero a formare quel Comitato di crisi composto tutto da piduisti, né del consulente numero 1, Steve Pieczenik, l’americano esperto in destabilizzazione per conto del Dipartimento di Stato americano che ammetterà poi di essere intervenuto per favorire l’uccisione di Moro”. Del resto, “l’uomo di Henry Kissinger” viene interrogato a metà 2014 dal pm di Roma Luca Palamara, volato in Florida dopo la riapertura del caso e confermerà che la sua missione non era quella di ottenere la liberazione dello statista, ma di “stabilizzare l’Italia”: cosa certo più problematica con un Moro di nuovo sulla scena politica (col carico di esplosivi documenti, carte & lettere dal covo sui segreti Dc e di Stato).
Ancora. Siamo alle dichiarazioni di Francesco Pazienza, il faccendiere legato a filo doppio ai Servizi e protagonista nell’altro sequestro bollente, quello dell’assessore dc Ciro Cirillo (la prima vera trattativa Stato-Camorra, col patto arcilimiardario degli appalti post terremoto) di tre anni dopo, nel 1981. “Per Moro fu assai diverso, lì decisero il Dipartimento di Stato e la Cia. Da quel che so, la Dc voleva salvare Moro ma potè muoversi entro precisi e rigidi binari che naturalmente erano stabiliti Oltreoceano”, dichiara Pazienza agli autori il 27 agosto 2014.
Anche il braccio destro del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Nicolò Bozzo, in una lunga conversazione del 7 gennaio di quest’anno con Limiti e Provvisionato, fa capire quanto fosse pesante e invasivo il condizionamento degli States. “Dalla Chiesa e io – rivela – non parlavamo mai al telefono di questioni delicate perchè sapevamo, per certo, che eravamo controllati, di sicuro ci controllava anche la Cia”. Il nome di Bozzo e poi quello di un altro militare e personaggio chiave di tutta la vicenda, Umberto Bonaventura (morto prematuramente) ci conducono ad uno degli episodi più inquietanti di tutta la vicenda, la scoperta del covo di via Monte Nevoso, a Milano, con tutto il suo carico di documenti esplosivi. E’ qui – ci chiediamo – la chiave di tutti i segreti? Forse. La ricostruzione degli autori è da vero thriller. Perchè ci sono due puntate, nella via Monte Nevoso story: una prima scoperta di documenti, nel ’78, e quella di dodici anni dopo, carte incredibilmente prima mai trovate. Lettere di Moro, note e non note, verbali di trascrizione, documenti, liste di nomi. Forse l’elenco di Gladio. E’ questo il grande interrogativo che – tra altre sparizioni e ritrovamenti, in un via vai di casseforti della Difesa e archivi Digos – campeggia su tutto. “Che Moro avesse parlato alle Brigate rosse di Gladio e della Nato lo abbiamo appreso con certezza nel 1990, dopo il secondo ritrovamento nel covo milanese”, scrivono gli autori. E a mo’ di esempio viene citato quanto scritto dallo statista dc sull’esistenza di “una strategia antiguerriglia della Nato”.
Gladio come chiave di tutti i segreti? Del resto, proprio un ex gladiatore, il sardo Antonino Arconte, l’agente G.71, ha sempre ribadito l’esistenza di un documento top secret dei Gladiatori – datato 2 marzo ’78 – dove si parlava del caso Moro: proprio due settimane prima dell’eccidio di via Fani.
Ma c’è un altro personaggio misterioso citato dagli autori, anche lui possibile depositario di tanti segreti. E’ il brigatista Giovanni Senzani, vero regista della trattativa Cirillo, fino ad oggi rimasto invece in ombra nel caso Moro. E’ tornato da pochi anni in libertà. “Chissà che quei fili – scrivono gli autori – non si riannodino primo o poi a Firenze. La cosiddetta pista fiorentina – cioè quella che individua i collegamenti tra il sequestro Moro, le riunioni dell’esecutivo brigatista e il noto criminologo Giovanni Senzani, “collaboratore allo stesso tempo dello Stato e delle Br” – non è mai stata del tutto abbandonata. Senzani è una figura ancora da scoprire, forse ‘l’uomo nero’ dell’eversione rossa italiana. Di lui, ufficialmente, si sa poco, ma qualcuno dev’essersi interessato molto alle sue attività se, in tempi non lontani, gli fu messo in casa un vecchio dispositivo di intercettazione ambientale, una sorta di micro-spia che fu scoperta per caso durante alcuni lavori di manutenzione domestica. Fu aperto un fascicolo ma poi tutto si perse nell’oceano delle deviazioni”. La definizione di “collaboratore dello Stato e delle Br” è contenuta nella recentissima audizione (11 marzo 2015) del magistrato fiorentino Tindari Baglioni davanti alla commissione Moro. Sostituto procuratore a Firenze dal 1976 al 1981, Baglioni “ha rivelato che questa frase gliela riferì il capo della Digos cittadina, Mario Fasano”.
Servizi doppi, quelli di Senzani? Un uomo che guarda a sinistra, a destra, al centro e anche oltreoceano? Un itinerario non proprio diverso, del resto, sembra averlo percorso anche un altro br di peso, Valerio Morucci, il “telefonista” del caso Moro. La Voce, cinque anni fa, scoprì l’esistenza di una rivista romana, Theorema, partorita da una associazione riconducibile, tra gli altri, all’allora sindaco Gianni Alemanno e alla consorte, Isabella Rauti. A presiederne il comitato scientifico Mario Mori, l’ex generale del Ros, affiancato dall’inseparabile Giuseppe De Donno. Tra i collaboratori di prestigio due firme su tutte: quella di Loris Facchinetti, un duro e puro di Ordine Nuovo, e Morucci, il telefonista…
E le “due Br” fanno più volte capolino tra le pagine di “Complici”. “Le Brigate rosse dal canto loro – scrivono gli autori – hanno sempre voluto rivendicare la loro purezza rivoluzionaria. E alcuni superstiti di quella stagione, certamente in buona fede e inconsapevoli dei tanti compromessi che i loro capi hanno intessuto sulle loro teste, ancora oggi tentano questa disperata impresa”.
Scrivono Limiti e Provvisionato. “Gli interrogativi che ancora rimangono troveranno in futuro nuove risposte. Qualcuno sostiene che un giorno sarà aperto un cassetto degli archivi di Washington, in forza del famoso Freedom of Information Act, e salterà fuori qualche altro frammento di verità. Anche perchè molti tra coloro che si sono occupati della vicenda sono ormai convinti che la verità sia Oltreoceano. Gli stessi ritengono che Giulio Andreotti e Francesco Cossiga siano stati tra i maggiori depositari dei misteri del ‘caso Moro’. Non si sa con chi abbiano stretto il patto ferreo del silenzio, ma lo hanno fatto. Certamente hanno condiviso con altri notizie importanti, e non è detto che i loro confidenti siano stati soltanto loro amici di partito. Magari nella ristretta cerchia ci sono anche uno o più avversari politici: ma il patto ha retto lo stesso”.
Del resto, una storia tutta a base di P2 (ricordate il Comitato di crisi insediato al Viminale con Cossiga ministro? 11 piduisti su 12, una formazione al completo) e zeppa dei segreti di Gladio non poteva reggere per tanto tempo se quel patto – sarebbe il caso di dire – non fosse stato a prova di “bomba”… Confidiamo in qualche pm coraggioso, forse un giudice a Berlino, anche se le speranze sono fievoli. E gli autori ce lo rammentano con amarezza: “Con stupore abbiamo dovuto constatare che, quando c’è odore di servizi segreti, magistrati anche molto preparati e audaci hanno come un mancamento e diventano improvvisamente poco curiosi”.
Per approfondire leggi in pdf l’articolo della Voce di gennaio 2005: “Morire di Gladio” di Simone Falanca
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