Melania e le altre/GLI IMPUNITI

Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell’ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, è possibile ricostruire una storia ben diversa.

RIPUBBLICHIAMO l’ARTICOLO DELLA VOCE DI MAGGIO 2012

Manca l’arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso.
Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l’accusa di omicidio, ovviamente, il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo – o più probabilmente, potuto – rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell’altra. Così nessuno solleverà più il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all’interno dell’esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell’assassinio.

LA LEZIONE DI IMPOSIMATO
«Accade talvolta – dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi – che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d’indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti».
La tesi di Imposimato – che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi “illogici” – è stata confermata fra l’altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent’anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima.
«Ero stato colpito – spiega Imposimato – non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l’ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi.
Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell’immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive.

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IL GIP CHE SAPEVA TROPPO
A disporre l’arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l’omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest’ultima località è in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l’autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo.
Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni “esemplari” ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando.
Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi “alti” del potere, quand’anche essi fossero all’interno della stessa magistratura.
Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l’arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all’istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno.
Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l’uomo che aveva dettagliato l’esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani.
Il 9 agosto Giovanni Cirillo lascia da un giorno all’altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d’Assise di Giulianova.
Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un’intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l’incarico: «da due ore – esordisce – non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perché: «il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l’ordinanza di custodia cautelare del pm Monti, ndr), l’idea che Parolisi fosse finito in un “imbuto”, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l’amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: “Finge di piangere”. Inoltre, ha avuto fino all’ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro».
Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com’è di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania – dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l’indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sé».
Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì».
Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi, iniziato a febbraio e tuttora in corso. Di sicuro, però, nel numero di luglio 2011 la Voce aveva ricostruito questa vicenda in maniera assai simile, con un Salvatore Parolisi costretto dalle sue stesse attività illecite prima a rendersi complice (non sappiamo con quale grado di consapevolezza) dell’assassinio di sua moglie, e poi a tacere, per evitare che dopo la prima, orrenda ritorsione nei suoi confronti, ce ne fossero altre.

LA FIRMA DEI CASALESI
Sì, su quel corpo straziato della giovane mamma di Somma Vesuviana c’è una firma a lettere di fuoco. La firma della camorra. Dopo l’atroce fine di Melania – moglie di un caporalmaggiore che era stato in Afghanistan, e sul cui conto corrente erano stati trovati 100mila euro durante le prime indagini – più nessuno potrà azzardarsi ad agire “in proprio” per trarre profitto da commerci sui canali “esclusivi” di gente come i Casalesi. Un linguaggio, quello degli omicidi di camorra, ben noto a pubblici ministeri e gip che abitualmente si confrontano con corpi “incaprettati” o mutilati in zone particolari, proprio per lanciare un avvertimento agli altri. Storie rimaste sepolte nei fascicoli giudiziari, o sottaciute nel buio dell’omertà per decenni, poi portate alla luce per la prima volta da Roberto Saviano e Matteo Garrone. Oggi sono patrimonio di una certa letteratura, eppure risultano ancora lontane dalla mentalità e dalle attitudini di taluni investigatori, «specialmente – dice un pm antimafia con lunghisima esperienza, oggi in pensione – se parliamo delle Procure di provincia dell’Italia centrale o del Nord, dove le Direzioni Distrettuali Antimafia sono lontane e così pure i metodi investigativi, soprattutto la tempestività delle prime ore, o la conoscenza approfondita di quei dettagli che immancabilmente conducono alle organizzazioni di stampo camorristico». Ma gli indizi, tanti, che nel delitto di Melania Rea potrebbero portare ai clan, pare non abbiano trovato spazio in alcuna attività investigativa specifica. Eppure sono tutti là, a formare una impressionante sequenza.
Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l’addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell’ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell’ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l’ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l’immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell’esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell’area il 18 aprile, a quell’ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.

DA KABUL A TOLMEZZO
Poi c’è un’altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane.
Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell’esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «mi hanno iniziato all’eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall’Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall’Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un’indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall’Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l’arrivo delle forze Isaf.
Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle “missioni di pace” deve poi essere stata un’altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall’Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli.
Un anno fa, ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall’Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l’arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però nega ogni addebito.
Ad oggi non si sa nulla né dell’inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma.
Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un “depistaggio” quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio – commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra – quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l’hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent’anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»).
Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è stato in qualche modo complice. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. E’ la “legge” ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.

L’ARMA BIANCA
E a proposito di morti improvvise nell’esercito, sempre in quella tarda primavera del 2011, il 4 giugno, a Kabul viene ucciso il tenente colonnello Cristiano Congiu in circostanze che lasciano aperta la strada a molti dubbi. Se infatti l’esercito si affretta a precisare che si è trattato di un delitto di criminalità comune (avrebbe difeso una donna dagli “scippatori” in suolo afgano…), va ricordato subito che in quel bollente contesto mediorientale Congiu si occupava precisamente di segnalare e consegnare alla giustizia gli artefici dei traffici di stupefacenti, forte di una lunga esperienza in materia. La aveva acquisita, forse, nei lunghi anni in cui era stato in servizio a Napoli, caserma del Rione Traiano.
Un’ombra si allunga, inoltre, su quell’ultimo messaggio di Cristiano affidato alla sua pagina Facebook: «Qualcuno mi vuol far tacere». Scrive il Messaggero all’indomani dell’agguato che «la sua morte potrebbe quindi essere legata alla sua attività di investigatore, un agguato studiato nei minimi particolari per farlo tacere». Sono state aperte ben due inchieste su quei fatti, una della magistratura e l’altra dell’Arma dei carabinieri. Ad oggi, esattamente un anno dopo, nulla è stato reso noto sui risultati.
Congiu, che era balzato alle cronache per aver arrestato un pericoloso esponente dei Casalesi, quel giorno a Kabul aveva ricevuto la visita di una donna americana. Così sintetizza Peacereporter i contorni finali del giallo: «Rimane senza risposta da parte del ministero della difesa l’interrogativo della presenza in quella zona del militare e della sua ospite statunitense, in visita a una miniera di smeraldi a cinque ore da Kabul».
L’informatissimo Corsera.it ha da tempo messo in relazione l’elementare puzzle tra l’atroce fine di Melania, l’omicidio Congiu, la presenza di Laura Titta alla Clementi e perfino il “suicidio” di Marco Callegaro, che a metà 2010 aveva denunciato sprechi e strani movimenti nel battaglione dell’esercito di stanza a Kabul. Tutti elementi che, a parte il coraggioso giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo, nessuno fra gli inquirenti ad Ascoli o a Teramo ha messo in connessione fra loro per dare una spiegazione al massacro di Melania e trovare un movente ben più convincente rispetto a quello del presunto folle amore per la soldatessa: un sentimento che le stesse intercettazioni mostrano invece fragile, se non addirittura inesistente («ma chesta è scema?», dice Salvatore parlando con se stesso di Ludovica).

LA VOCE DEL SILENZIO
E c’è ancora una frase, detta a botta calda, che accomuna Parolisi ad un’altra protagonista di un caso recente, anche lei imputata per omicidio. Salvatore Parolisi la dice, subito dopo la scomparsa di Melania, all’allora amico Raffaele Paciolla: «me l’hanno presa…». Pari pari l’esclamazione di Sabrina Misseri dopo la sparizione della cugina Sarah Scazzi: «l’hanno presa…».
Chi aveva preso Sarah? E perché? Anche qui, la cortina di silenzio sulle tante incongruenze della ricostruzione ufficiale, è diventata di piombo. Cristallizzata, per giunta, dalle mille sequenze realizzate per la tv ripercorrendo quasi esclusivamente le carte dell’inchiesta giudiziaria. Nessuno, insomma, che provi almeno una volta a porre apertamente domande sugli stessi investigatori. I quali spesso non guardano dentro quei piccoli squarci rivelatori, illuminanti di un’altra verità. Quella che non si può dire. Forse qualcuno è disposto a scontare 30 anni di carcere piuttosto che svelare i veri mandanti. Un terrore imposto a chi ben conosce logiche e linguaggi della malavita organizzata.
«Cosa accomuna i casi di Elisa Claps a Potenza, di Sarah Scazzi ad Avetrana e di Yara Gambirasio di Brembate di Sopra? L’inadeguatezza, se non il fallimento, del sistema investigativo. Ritardi ed errori delle indagini e delle ricerche. Per Elisa e Sarah si indicò la fuga volontaria come motivo della scomparsa. Per Yara si incarcerò un innocente, il marocchino Mohammed Fikri, il primo extracomunitario a portata di mano». Lo sfogo è di Michele Giangrande, avvocato di Avetrana e personaggio noto del web attraverso la sua battagliera associazione “Contro tutte le mafie”.
Nel monumentale dossier dedicato alle tragiche vicende di queste giovani donne, Giangrande è forse l’unico che non teme di indicare con chiarezza elementi che riguardano gli stessi investigatori. E a chiedersi, per esempio, «come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio nonché collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l’accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?». «Qualsiasi decisione finale sarà presa – rincara la dose l’avvocato – sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale».
C’è solo Giangrande a ricordare come nel 2004, in quella stessa zona, le indagini sul delitto di una coetanea di Sarah, Giusy Potenza, avessero avuto come sfondo quella prostituzione minorile che nei territori fra Taranto e Foggia vede da sempre all’opera la Sacra Corona, orrenda gemmazione della camorra in terra pugliese, e come vittime centinaia di bambine innocenti, cui la natura aveva donato una bellezza senza pari.
Abbandonata subito, infine, anche la pista del delitto di camorra nel caso di Yara Gambirasio, benché entrambi i titolari della ditta per la quale lavorava il padre della ragazza siano stati arrestati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. E così, mentre si continuano ad eseguire gli oltre diecimila esami del Dna ad interi paesi, sperticandosi fino alla ricerca di possibili “figli naturali” dei presunti assassini, nessun rilievo è stato dato dagli inquirenti alle voci che fin dai primi giorni si rincorrevano in paese, a Brembate, su quella droga che circolava a fiumi nelle zone periferiche, gestita – come ormai ovunque in Lombardia e in tutto il Nord – da uomini che portano cognomi calabresi o campani. E che in zona vivono e lavorano da tempo anche con attività imprenditoriali alla luce del sole.
Per Yara insomma, proprio come per Melania e Sarah, ad essere privilegiata rimane la strada del delitto passionale, o al massimo di un balordo. E a ricordarci qualcosa sulla principale investigatrice del caso Brembate, il pm Letizia Ruggeri, era stato solo il quotidiano Libero. Che il 9 marzo 2011, con il corpo della bambina appena ritrovato, ricorda come quel 26 novembre 2010, quando Yara scompare, sia lo stesso giorno in cui va in pensione il procuratore capo di Bergamo Adriano Galizzi. E che il sostituto Ruggeri, cui era stato assegnato il fascicolo, il 4 dicembre parte per due settimane di vacanze sulla neve. Situazione: «Nei 40 giorni cruciali per le indagini – sintetizza Libero – il pubblico ministero era in vacanza».
Finale: a tutto aprile 2012, mandanti ed assassino di Yara Gambirasio sono ancora senza volto.


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Un commento su “Melania e le altre/GLI IMPUNITI”

  1. Vice ha detto:

    A me sembra che la vicenda sia una storia di sesso, droga e rock-and-roll, che coinvolgeva il 235° battaglione Piceno, ex scuola allievi ufficiali. Non si sa bene chi partecipasse ai festini e cioè se non intervenissero anche donne civili, amiche degli amici e così via. Certo Melania probabilmente era venuta a conoscenza di tali fatti, e un qualcosa si era rotto tra i coniugi, una sorta di patto non scritto trai due. Quando ormai certa del rapporto sentimentale del marito Parolisi con Ludovica, che evidentemente riteneva cosa seria, ha minacciato di spifferare tutto. Con buona pace dell’ Esercito. A quel punto Parolisi informati coloro di competenza è partito da costoro l’ordine di uccidere attraverso la complicità del militare, obbligando il marito di Melania a caricarsi di tutte le responsabilità connesse silenzio compreso. Credo comunque che la storia sia chiara a tutti, questa non è fantascienza. Problemi di opportunità o di sputtanamento totale dell’istituzione, hanno consigliato chi di dovere di dirigere le indagini verso una direzione di comodo.

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