ORTESE / “LE PICCOLE PERSONE” E IL DOLORE  DEL MONDO

Libro dell’anno Le piccole persone di Anna Maria Ortese. Un prezioso parto di Adelphi per raccogliere scritti, articoli, riflessioni, brevi saggi della grande e misconosciuta scrittrice, editi ma anche inediti. Filo rosso che corre tra le pagine, il dolore e la sofferenza degli ultimi, dei senza voce, delle ‘piccole persone’, dei cosiddetti ‘animali’ secondo quegli ‘umani’/umanoidi che così etichettano le loro bestie (da mangiare) o i giocattoli, per i bimbi rincoglioniti dal turbo consumismo.

schermata-2016-12-28-alle-20-25-23Un libro, quello della Ortese, di cui più volte abbiamo scritto quest’anno, riportandone diversi passaggi. Raro per sensibilità, per le emozioni che dà, per la scrittura che più limpida non si può, per le idee forti che ti scolpisce dentro.

Abbiamo scoperto una recensione d’autore, un vero gioiello d’epoca e, di seguito, ve ne offriamo alcuni tra i passaggi più significativi. Si tratta di una lunga critica pubblicata il 19 luglio 1993 sull’Unità da Giulio Ferroni, uno dei maggiori storici della letteratura italiana, per anni docente alla Sapienza di Roma. Fece scalpore, dieci anni fa, la sua stroncatura di uno degli intoccabili, uno dei nuovi Vati delle Lettere (sic), Alessandro Baricco, contenuta nel volume collettivo Sul banco dei cattivi. A proposito di Baricco e altri scrittori alla moda.

Ma tuffiamoci adesso nella stupenda recensione di Ferroni, titolata Il mare di Napoli – Ritratto d’autore. Dopo il successo de Il cardillo addolorato, ripercorriamo l’opera di Anna Maria Ortese, dai romanzi e dagli scritti giornalistici, in un originalissimo rapporto tra natura, ragione e irrealtà.

“Nella Ortese non c’è compiacimento del dolore, ma anzi un determinato rifiuto di farne spettacolo. Il dolore di cui ci parla vive nella riservatezza, si difende in una ostinata ritrosia. In esso resiste l’aspirazione impossibile (ostinatamente adolescenziale) a una felicità libera e sicura, a una bellezza assoluta, a un’armonia segreta in cui si riscatti il senso pieno del mondo: qualcosa che si sa sottratto, inattingibile, distante, ma a cui si continua a tendere. Si ‘salva’ così la comunità dei sofferenti, partecipando più a fondo al loro male proprio perchè si avverte che esso è forse insuperabile, ma che non dovrebbe esserci, non è comunque giusto che ci sia”.

Giulio Ferroni. In apertura Anna Maria Ortese.

Giulio Ferroni. In apertura Anna Maria Ortese.

“In questo senso estremo del dolore, in questo modo di parteciparvi e di riscattarlo, la Ortese si riallaccia al nucleo più irriducibile dell’insegnamento di Leopardi. La natura che ella scopre intorno a sé è travagliata, nella sua irriducibile materia fisica e biologica, da un agitarsi sotterraneo di violenze e di sofferenze, come il tremendo giardino primaverile descritto da Leopardi in un celebre pensiero dello Zibaldone del 19-22 aprile 1826, un giardino dove sotto l’apparente splendore vibra il ‘patimento’ di tutti gli esseri, dove quello che sembra un ‘soggiorno di gioia’ si rivela come un vasto ospitale”.

“Il misterioso cardillo che si nasconde sotto le vicende di questo libro è anche immagine della sofferenza e della fragilità degli esseri ‘piccini’, di una sofferenza senza età, che viene da lontano, che accomuna i bambini e i vecchi, i deformi, tutti i disgraziati della terra. Il cardillo è il gioco infantile, è la vita immotivata ed elementare a cui il mondo non attribuisce nessun valore, è tutti coloro che sono schiacciati e dimenticati dall’impassibile procedere della natura e dalla impietosa macchina sociale, è la memoria dei diritti dei deboli, di coloro che non reclamano nulla”.

Continua Giulio Ferroni. “Quanto lontane quelle variegate ‘volontà di potenza’ che ci sono state propinate dalla blaterazione politico-intellettuale degli anni Settanta e Ottanta: le espansioni del corpo, le esplosioni desideranti, le trasgressioni polimorfiche, le geometrie del capitale, gli assalti armati al ‘cielo’! Qui siamo dalla parte di quelli la cui esistenza non ha ragione nel mondo, che dappertutto subiscono la violenza cieca di quanti si arrogano il diritto di dominare e di aggredire i piccoli, gli indifesi, gli esseri naturali: dalla parte di quelle creature che, come la ginestra di Leopardi, piegano il ‘capo innocente’, ma senza sottomettersi all’oppressione, rimanendo irriducibili ad essa, per la propria stessa intima fragilità”.

“Come mostra in tutta chiarezza proprio lo scritto pubblicato sull’Unità, la Ortese (in rapporto con vicende familiari e in seguito ai terribili effetti delle distruzioni della guerra mondiale) ha molto presto avvertito la più assoluta estraneità verso la vita che si afferma trionfalmente, verso la corsa collettiva ad afferrare spazi e oggetti: ha rifiutato proprio la volontà di vita a tutti i costi, la spinta illusoria che ci porta a ‘prendere’ il mondo, a porci come ‘sovrani’ di fronte ad esso; è fuggita proprio  dalla ‘festa del mondo’. Di fronte al rumore della nostra vita collettiva, ha preferito arretrare: la sua scelta letteraria si è risolta sempre più in un nascondersi dall’esistenza, in un affidarsi a un’irrealtà che l’ha condotta al di là della nostra realtà devastata, vorticosa e apparente. La sua opera si è svolta in un singolarissimo nesso tra natura, ragione e irrealtà: partecipazione alla sofferenza che si dà nella vita naturale, commisurazione di questa sofferenza alla possibilità della ragione (quella ragione che ancora ne La ginestra leopardiana chiede che gli uomini siano ‘confederati’, lucidamente solidali contro il male), denuncia dell’irrazionalità della vita collettiva e rifugio nell’irrealtà della letteratura”.

A seguire, lo storico articolo di Giulio Ferroni

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