Ai tanti misteri che avvolgono il Cis di Nola – 300 imprese di cui 30 già dichiarate fallite, 100 in stato di insolvenza e tutte le altre a rischio di trascinamento nel crack della stessa spa Cis – oggi se ne potrebbe aggiungere un altro. Un tassello apparentemente piccolo, ma forse essenziale per restituire giustizia ai 30 imprenditori dichiarati falliti dal tribunale con procedure rapidissime. E su istanza presentata dal Cis spa, che proprio loro avevano contribuito a fondare.
Alla base delle sentenze di fallimento, cominciate nel 2014 e andate avanti per tutto il 2015, c’erano infatti i cosiddetti “contratti di sub mutuo” che i soci avevano sottoscritto (molti fra loro obtorto collo) nel 2006, proprio quando cioè scattava la fatidica data e avrebbero potuto pagare la rata finale, riscattando definitivamente il capannone per il quale versavano pesanti rate di leasing fin dal 1986.
Occhio alle date. Nel 2006 la crisi epocale che ha colpito l’Italia e il genere il mondo occidentale (2008-2014) è ancora lontana. E i soci quell’anno sono pronti a versare l’ultima rata per il riscatto. Il patron del Cis, Gianni Punzo, chiede invece ad un pool di banche (Unicredit in testa, poi anche Intesa San Paolo dell’amico Corrado Passera e Mps) un nuovo finanziamento da 300 milioni circa. Contemporaneamente Cis spa si iscrive nell’albo dei mediatori creditizi e propone (ma secondo molti imprenditori, di fatto, impone) un sub mutuo ai soci. Uno strategico passaggio, quello del 2006, che viene peraltro viene ricostruito nello stesso bilancio ufficiale Cis spa chiuso al 31 dicembre 2014.
E qui comincia l’ennesima nebulosa di tutta questa vicenda.
Già perché nel contratto di sub mutuo fatto sottoscrivere ai soci le stranezze sono parecchie. Ma una, la più macroscopica, salta subito all’occhio fin dalle prime righe. Leggiamo l’intestazione del contratto. Nel quale viene subito specificata la parte contraente. Che è «La società Cis spa, con sede (…), capitale sociale (…), iscritta al Registro delle imprese di Napoli (…)» e soprattutto «iscritta al numero 20293 dell’UIC», «in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione Cav. del Lav. Giovanni Punzo, nato a Napoli (…)».
L’UIC, Ufficio Italiano Cambi, cui risultava nel 2006 iscritta Cis spa (condizione indispensabile per ottenere la facoltà di stipulare coi soci i sub mutui), ha operato fino al 21 novembre del 2007, prima che passassero direttamente a Bankitalia le sue funzioni di controllo, fra cui quelle «in materia di contrasto al riciclaggio del denaro» e «la lotta all’usura».
Quando il 25 ottobre 2006 vengono sottoscritti i contratti di sub mutuo fra Cis spa e i soci, l’Uic era dunque ancora pienamente in vigore. E controllava anche l’albo degli intermediari finanziari, detenuto e vigilato, appunto, dall’Uic. Severe, com’è giusto che sia, le regole per potersi iscrivere a questo particolare albo. In particolare era – ed è – richiesta tutta una serie di requisiti che attestino “l’onorabilità” dell’impresa dei suoi legali rappresentanti, come previsto dall’articolo 109 del Testo Unico Bancario.
La domanda è allora una sola: era possibile nel 2005-2006 accettare all’Uic la richiesta di iscrizione all’albo dei mediatori finanziari della società Cis spa, dal momento che il suo legale rappresentante Giovanni Punzo, presidente del cda, almeno fino al 2001 non era in grado di esibire un certificato antimafia immacolato? O forse le credenziali antimafia talvolta diventano un optional, perfino quando si tratta di ricevere – e poi prestare – centinaia di milioni di euro?
A portare alla luce l’impossibilità per Punzo di ottenere dalla Prefettura di Napoli il rilascio di un certificato antimafia pienamente liberatorio era stata proprio la Voce in un’inchiesta di dicembre 2011, al tempo in cui l’altra società made in Punzo, la Nuovo Trasporto Viaggiatori , quella dei treni Italo, annaspava da mesi senza riuscire a far partire nemmeno un convoglio, probabilmente proprio per il disco rosso dato dal Palazzo del Governo partenopeo a quel benedetto certificato. L’articolo, peraltro, formò oggetto di una lunga ed acuminata interpellanza dell’allora senatore Elio Lannutti. In quel periodo, infatti, da mesi andava avanti senza esito il pressing della società Interporto Campano (direttamente interessata al decollo di Ntv) per ottenere dalla Prefettura di Napoli il rilascio del certificato antimafia. Ma «a fine novembre – scriveva la Voce – il documento è ancora fermo nelle stanze di Piazza Plebiscito, sede della Prefettura, oggetto di un rimpallo da un ufficio all’altro».
Per capire cosa era successo bisogna riportare indietro le lancette al 1990, quando Punzo viene arrestato nell’ambito della ‘Operazione Maglio’ con l’accusa di 416 bis per i presunti rapporti col boss Carmine Alfieri. In seguito nel processo stralcio a suo carico l’accusa fu derubricata al solo favoreggiamento, però gli fu riconosciuta l’aggravante prevista dalla legge 203, articolo 7 (reati commessi al fine di favorire l’associazione mafiosa). Di qui, nonostante fosse da anni maturata la prescrizione di quella brutta pagina giudiziaria, il mancato rilascio del certificato antimafia, almeno fino a tutto il 2011. «Grazie a quello stralcio – si leggeva nel pezzo della Voce – Punzo ha maturato la prescrizione, ma l’aggravante dell’articolo 7 e la mancata assoluzione pesano ancora sul rilascio della liberatoria». Intanto in quei mesi del 2011 il giudizio sulla delicata questione era stato affidato «al Gia, Gruppo Ispettivo Antimafia, l’ufficio speciale della Prefettura Napoli dedicato a prevenzione e contrasto delle attività connesse alla malavita organizzata e che è chiamato ad esprimere il suo parere vincolante per l’emissione del parere interdittivo».
La circostanza viene peraltro confermata dallo stesso cavaliere-imprenditore. A seguito dell’articolo pubblicato sulla Voce, il 5 dicembre del 2011 Punzo inoltra al prefetto di Napoli Andrea De Martino una lettera dai toni perentori, nella quale lamenta «l’inspiegabile, mancato rilascio del certificato antimafia alla società Interporto Campano», aggiungendo il proprio «stupore per l’incresciosa situazione creatasi».
Probabile che dopo il 2011 lo sblocco ci sia stato, visto che i treni Ntv percorrono ormai da anni in lungo e in largo l’Italia, arrecando benefici economici stramilionari alla società Interporto, che esercita in esclusiva le attività di manutenzione dei convogli. Basti pensare che nel bilancio Ntv 2011 si fa riferimento ai ben 55,2 milioni di euro pagati ad Interporto, pari «all’intero prezzo contrattuale».
Ma quale doveva essere la situazione di quel certificato antimafia nel 2006, quando il “cav.” Punzo, legale rappresentante di Cis spa, chiedeva ed otteneva l’iscrizione nell’albo dei mediatori finanziari Uic e, soprattutto, stipulava i sub mutui con i soci? Possibile che tale delicata attività fosse liberamente consentita senza dover esibire, per poterla esercitare, quella stessa liberatoria antimafia che a un normale cittadino è richiesta anche per ampliare una veranda da mille euro? Le Procure di Napoli e di Nola, che in merito alle drammatiche vicende accadute al Cis, coi fallimenti a catena, hanno ricevuto documentati esposti (uno firmato Confedercontribuenti, l’altro sottoscritto da alcuni soci che coi contratti di sub mutuo hanno perso tutto), potranno far chiarezza anche su questo delicato tassello.
Del resto, è stato lo stesso Istituto di Via Nazionale a ribaltare ogni responsabilità di questo tipo sull’autorità giudiziaria. In una lettera del 18 ottobre scorso rivolta al presidente Confedercontribuenti Carmelo Finocchiaro, che aveva chiesto chiarimenti sul finanziamento da 300 e passa milioni ottenuto da Punzo, Bankitalia ricorda che nell’arco di tempo considerato (2005-2008) non era ancora di sua pertinenza il controllo sulle attività dei mediatori finanziari. Vero. Perché in quel periodo tali scrupolose deleghe erano conferite all’Uif, l’Ufficio Italiano Cambi che, come abbiamo visto, aveva compiti non meno rilevanti.
La domanda allora è: poteva essere consentita quella iscrizione? E chi aveva dato disco verde? Ancora: che valore devono avere in giudizio i contratti di sub mutuo che hanno già causato 30 fallimenti, visto che all’intermediario – o meglio, al suo presidente del cda – mancava ancora nel 2011 un requisito come la liberatoria antimafia?
«L’ennesima beffa che si abbatte su di noi, questa scoperta – dice un ex commerciante Cis – dopo quelle che facemmo proprio nel 2011, e cioè che le rate di sub mutuo da noi regolarmente versate non venivano utilizzate dal Cis spa per pagare le banche, che avevano in pegno i nostri capannoni, ma confluivano nei lauti finanziamenti del Cis alla società Interporto Campano».
Non solo. Ma, da quanto si legge nel bilancio Cis al 31.12.2014, a partire da dicembre 2011 era stata la stessa spa Cis ad interrompere i versamenti per restituire il finanziamento da 300 milioni alle banche, adducendo l’elevata entità delle spese per i derivati connessi al mutuo e la morosità di molti soci. Tanto da chiedere ed ottenere successivamente il fallimento sprint di 30 fra le ‘sue’ imprese (il Cis era originariamente una compagine consortile). Tutte ‘colpevoli’ di aver stoppato il pagamento di un sub mutuo sul quale oggi, come abbiamo visto, si addensano nuove ombre. Senza contare i finanziamenti da milioni di euro a Interporto. E senza contare il fatto, emerso negli ultimi giorni, che quando Cis spa decise di intentare le istanze di fallimento ai danni dei soci, sarbbe andato a colpire piccole imprese con 30-40mila euro di rate arretrate (quelle sospese per contestare i finanziamenti a Interporto), senza nemmeno sfiorarne altre, con morosità alle stelle: fino ad oltre un milione di euro.
L’ennesimo elemento che dovrà essere attentamente valutato dagli inquirenti al lavoro in Procura.
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