Non solo ammazzati, ma anche derubati. E’ il copione del giallo – tale solo per chi ha fatto indagini senza capo né coda, o meglio “non ha fatto indagini” – firmato Costa Concordia, che ha visto la morte di 33 passeggeri, colpevoli solo di aver preso quella maledetta nave, quella tragica sera del 13 gennaio 2012, guidata da quel comandante, Francesco Schettino, condannato in primo grado a 16 anni di galera.
Denuncia ora un comitato francese di familiari di 390 naufraghi che, dopo le ricerche sui fondali e la appena finita rottamazione del Concordia, mancano all’appello moltissimi oggetti di valore non solo economico ma anche affettivo. Senza appello il j’accuse: “L’incompetenza di Costa è pari a quella del suo comandante”.
“Le casseforti che c’erano in tutte le cabine e quanto vi era contenuto è sparito”, dichiara il rappresentante del comitato, Anne Decrè. “Nelle cabine sul ponte – precisa – stranamente sono sparite tutte le casseforti. Quei pochi beni sono stati anche restituiti in modo approssimativo, spesso sbagliando tra un indirizzo e l’altro. Moltissime valigie, poi, che si vedono nei filmati, non sono mai state restituite”. C’è una doppia ipotesi: parte dei beni sono stati rubati durante le tragiche ore successive al naufragio: proprio come capita dopo i terremoti, con gli sciacalli pronti per il via. L’altra pista, non meno inquietante, è che i furti siano stati operati “a freddo”, ossia durante le operazioni di smantellamento del relitto: quanto era imprigionato tra le ferraglie e poi ritrovato, non sarebbe stato né catalogato né tantomeno restituito ai legittimi proprietari. Alla tragedia, ai lutti, al dolore come ciliegina si aggiunge ora anche la beffa.
Di vario tipo, e tutte documentate, le accuse. Una donna sostiene che la compagnia le ha mostrato delle foto con i ritrovamenti effettuati, lei ha identificato tre anelli appartenuti alla nonna: ma Costa non ha mai provveduto a restituirli. Un altro passeggero ha invece riavuto la sua macchina fotografica, ma non un collier e gli orecchini della moglie.
Costa fa spallucce e declina ogni responsabilità: “tutte le operazioni di recupero dei portavalori sulla nave – afferma – sono state effettuate dalla guardia costiera italiana sotto la vigilanza del tribunale di Grosseto. Le casseforti del ponte 6 sono state disperse in mare – viene garantito – e solo poche sono state recuperate”. Parola di marinaio, pardòn di armatore.
I legali di Costa, poi, argomentano che la gran parte dei passeggeri (in questo caso i francesi) ha accettato una somma forfettaria per la perdita dei propri beni. “Ma quella sottoscrizione – precisa Decrè – prevedeva comunque la restituzione di quelli presenti nella cassaforte”. Cosa che appunto non è mai avvenuta e mai potrà avvenire.
“Se tale è stata la vigilanza del tribunale di Grosseto – aggiungono altri passeggeri – figuriamoci che razza di sentenza hanno fatto”. E infatti la sentenza partorita dalle toghe toscane contempla una dinamica della tragedia che non sta né in cielo né in terra. Per motivare la condanna del comandante Schettino è passata la favoletta dell’inchino, alla quale non crede neanche un bimbo al primo bagno stagionale.
Come la Voce ha più volte documentato, anche nella prima inchiesta a tre mesi dalla tragedia, è inipotizzabile un errore del genere per un comandante comunque esperto come Schettino. E’ chiaro che il “motivo” di quella rocambolesca manovra, una sorta di slalom speciale tra le scole, a meno di un improvviso raptus di follia omicida che abbia traversato la mente di ‘O Comandante (ma non risulta agli atti alcuna perizia psichiatrica) è spiegabile solo guardando più in là. Caso mai ad un precedente, quasi la stessa manovra avvenuta, sempre su un Costa, qualche mese prima, denunciata e documentata da un avvocato spagnolo residente nelle Canarie.
Quella pista conduceva a ben altro: per la precisione ad “operazioni” border line (vedi traffico di droga) tra la nave crociera e chi si trovava lungo la ‘costa’: in quella occasione, infatti, l’avvocato vide alcuni segnali provenire dalla terraferma.
Del resto circa un anno fa la procura di Firenze ha aperto un fascicolo relativo proprio ai traffici di coca via mare, a bordo di navi da crociera, ove tra l’altro vige una vera e propria extraterritorialità, nonché una gran facilità (e pochi controlli) nelle operazioni di imbarco (almeno fino a questa estate, dove sono stati intensificati per via del terrorismo): tra le compagnie sotto i riflettori c’è proprio Costa.
Come mai – sorge spontaneo l’interrogativo – nessun dubbio ha mai sfiorato la procura di Grosseto? Perchè non è mai sorto negli inquirenti il sospetto che al di là del folkloristico inchino ci potesse essere qualcosa di ben più grosso e di ben più “motivante”?
Nella foto Francesco Schettino e sullo sfondo l’inabissamento del Costa Concordia
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