In un Paese normale il forte j’accuse del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo sul dilagare della corruzione in Italia e gli scarsi metodi di contrasto adottati, avrebbe suscitato un fisiologico dibattito, sollecitato ad una seria, costruttiva riflessione sul ‘che fare’. Invece la solita bagarre di polemiche, inscenate soprattutto dalla classe politica, ma non solo. Un fuoco di fila incrociato, capace di alzare il consueto polverone salvatutti. Proprio come quella prescrizione che continua ad essere un nodo non sciolto, emblema di una “giustizia che non s’ha da fare”. Come mai il premier Renzi, dalla sua alta cabina di regia, continua a ignorare il problema? E a non risolverlo?
E’ il filo del discorso seguito da Antonio Esposito nell’intervento che segue. Per anni magistrato di punta in Cassazione, presidente
onorario dell’associazione antimafia Antonino Caponnetto, oggi editorialista de “Il Fatto” diretto da Marco Travaglio, Esposito anni fa subì un autentico processo mediatico per via della sentenza-Berlusconi, la prima condanna passata in giudicato subita dall’ex Cavaliere, firmata dall’allora presidente della sezione feriale nel bollente agosto 2013. Crocifisso dai media dei Palazzi per un commento mai dato – e del tutto inventato – prima del deposito della sentenza, Esposito è stato poi scagionato da ogni accusa, costruita ad arte, in un goffo tentativo di delegittimazione. Significativa, poi, la lettura e la decodificazione di quell’assalto: la lezione da impartire ad una toga scomoda, colpevole di tante lese maestà. Una toga che aveva posto il sigillo definitivo a decine di sentenze antimafia e, soprattutto, anticorruzione. Provvedimenti che – in pari tempo – certificavano la sempre più pregnante invasività di quei colletti bianchi, di quella borghesia mafiosa, di quei livelli di penetrazione criminale nei salotti e nei palazzi del potere, sempre più cancerogena, ormai innervata nel tessuto sociale, economico e – perchè no – istituzionale del Paese.
Veniamo ad oggi, 11 giugno, e alle nuove polemiche sul fronte corruzione. Sottolinea Davigo: “Il nuovo codice degli appalti è roba che non serve a niente”. “Da anni si scrivono regole sempre più stringenti che danno fastidio alle aziende per bene e non fanno né caldo né freddo a quelle delinquenziali”. Poi: “inutile alzare le pene se non si sa a chi darle. L’Italia ha meno condanne per corruzione della Finlandia”. Ancora: “L’Autorità anti corruzione non può avere poteri seri per scoprire i reati. Cantone può dare consigli su come devono essere fatti i bandi di gara, può consigliare ai prefetti di commissariare una certa impresa. Anac fa cose diverse ma non combatte la corruzione”.
Replica Raffaele Cantone: “certo la repressione è importante, ma lo è altrettanto la prevenzione ben fatta, come dimostrano le statistiche dei paesi stranieri dove si è seguita questa strada” (anche se non si ha notizia di paesi dove sia così forte la collusione tra politica e criminalità, sostanziata nelle prassi corruttive). A proposito del nuovo (sic) codice sugli appalti, di cui ha promosso il testo, Cantone osserva: “evidentemente Davigo non l’ha letto in modo approfondito”. Scende in campo il premier per spalleggiare il suo capo Anac: “Un deciso passo in avanti, il nuovo codice”. E’ forse già il caso di rivolgersi a “Chi l’ha visto?”.
Passiamo all’intervento di Antonio Esposito, che focalizza proprio sui temi della corruzione.
MA SIAMO MAI IN UN “PAESE NORMALE” ?
In un Paese normale, la denunzia di Piercamillo Davigo – magistrato esperto più degli altri di lotta alla corruzione – su di un diffuso sistema di corruttela politica che proietta l’Italia al vertice dei paesi corrotti dell’Occidente, avrebbe dovuto indurre ad una seria riflessione sul fenomeno denunziato, caratterizzato da una serie continua di scandali. Invece, il malcapitato Davigo è stato sommerso da aspre critiche provenienti non solo dai politici ma anche da numerosi magistrati.
Ne è scaturito un florilegio di parole banali e inutili: “Non vi sono toghe buone contro un’Italia di cattivi”, “i magistrati non hanno ricette né affrontano problemi deontologici altrui”, così Bruti Liberati (il capo dei P.M. di Milano che entrò in contrasto con il valoroso Robledo); “Non è assolutamente vero, dire che tutto è corruzione, significa che niente è corruzione”, così Cantone (magistrato, nominato dal Governo a capo dell’Anac); “Davigo ha sbagliato a generalizzare, se si dice che tutti sono ladri, facciamo il gioco dei ladri”, così Gratteri (che credeva davvero lo nominassero Ministro di Giustizia); “L’intervista di Davigo è un errore”, così Violante (ex magistrato, assurto ad alte cariche politiche); “Gli attacchi generalizzati di Davigo”, così Ferri (magistrato, sottosegretario alla Giustizia); “Speriamo che la Giunta dell’A.N.M. prenda le distanze”, così Ferranti (ex magistrato, presidente della commissione Giustizia alla Camera); “Toni eccessivi”, secondo Racanelli (ex componente del CSM); “Parole sbagliate nel merito e inopportune”, per Nordio (procuratore aggiunto a Venezia).
Ma l’attacco più duro è venuto, ed era prevedibile, dall’ex sottosegretario del Governo Renzi, avv. Legnini, vice presidente del Csm che, in un crescendo di accuse, ha indicato in Davigo colui che “ci fa ritornare indietro di vent’anni”, ed ha sentenziato: “Le dichiarazioni del Presidente Davigo rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno”.
Queste gravi affermazioni impongono una ferma precisazione. Ma dove sta scritto che un magistrato non possa esercitare – specie se in possesso di un bagaglio enorme di conoscenze e di esperienze – il diritto, costituzionalmente riconosciuto, di manifestare il proprio pensiero ed informare l’opinione pubblica su un fenomeno di rilevante interesse sociale quale è quello di un sistema corruttivo che devasta il Paese? Non è forse vero che l’Italia è un Paese gravato da una classe politica eccezionalmente corrotta, dove ogni tanto i magistrati, tra mille difficoltà, ostacoli e linciaggi mediatici, riescono a portare a galla gravi scandali anche di enorme sperpero di denaro pubblico?
Non ha senso, allora, parlare di “conflitto” o addirittura di una “guerra” tra politica e magistratura se, ogni qualvolta si è doverosamente esercitata l’azione penale nei confronti di esponenti politici, soprattutto se di “primo piano”, si è assistito alle scomposte reazioni di costoro che hanno “gridato” alla “persecuzione”, alla “giustizia ad orologeria”, alla “giustizia politica”.
Ed è quanto è avvenuto anche nell’inchiesta “Tempa Rossa” ove, all’esercizio dell’azione penale tesa ad accertare un diffuso traffico di influenze che toccava anche il Governo, si è opposto un violento attacco politico – su cui Legnini non ha proferito parola – nei confronti dei P.M. accusati di invadere la funzione legislativa e si sono evocate “barbarie legate al giustizialismo”. E non ha senso parlare di “rispetto reciproco”, di “collaborazione”, di “dialogo e confronto per ottenere riforme, personale e mezzi per una giustizia efficiente e rigorosa”, se poi il Parlamento e il Governo si guardano bene dall’emanare doverose leggi nell’interesse dei cittadini che hanno il diritto di ottenere, appunto, una “giustizia efficiente”. E non ha senso che Renzi strilli: “voglio le sentenze, non ne posso più di un Paese dove le sentenze non arrivano” e derida i magistrati: “diamo una mano ai giudici, facciamo il tifo per loro perché arrivino a sentenza”. Egli sa bene che le uniche sentenze che di certo arrivano sono solo quelle di proscioglimento per prescrizione.
È davvero tanto difficile capire che la deprecata legge del dicembre 2005 e la sua mancata riforma sotto tutti i governi sono funzionali al diffuso sistema di corruttela consentendo a politici e a burocrati, imputati di gravi reati, di andare esenti da pena e continuare a ricoprire importanti cariche politiche o dirigenziali? Ora Renzi, se vuole, dalla sua cabina di comando, è in grado di far approvare una legge che non faccia più decorrere la prescrizione dalla data della citazione a giudizio o della richiesta di rinvio a giudizio del P.M., perché è in quel momento che lo Stato manifesta, attraverso i titolari dell’azione penale, la volontà di chiedere al giudice che l’imputato sia sottoposto a processo.
Ma Renzi può fare anche approvare, con la massima celerità, il disegno di legge sulla riforma del codice di procedura penale che giace al Senato, facendovi apportare emendamenti tali da incidere, in maniera strutturale, su quel “mostro” giuridico costituito da un processo penale lento, macchinoso, causa prima dei ritardi inaccettabili nella definizione dei processi (cui si aggiunge la cronica carenza di personale degli uffici giudiziari, mai risolta dai governi).
E, allora, Renzi – anziché “strillare che vuole le sentenze che non arrivano”, addebitando, così, la colpa ai magistrati – faccia approvare, bene e presto, la modifica della normativa sulla prescrizione e faccia approvare, bene e presto, la riforma del codice di procedura penale, dimostrando così con i fatti, e non a parole, che è possibile approvare, in tempi rapidi, non solo la (inutile) legge di riforma della Costituzione, ma anche leggi che assicurino ai cittadini sentenze celeri e certezza della pena.
SE ROTTAMAZIONE FA RIMA CON BAVAGLIO ALL’INFORMAZIONE
Cittadini i quali non possono fare altro che denunziare lo scempio che ha portato in poco più di dieci anni alla estinzione per prescrizione di oltre 1.500.000 processi. A tal proposito Renzi, quale capo del Governo e segretario del partito di maggioranza che controlla il Parlamento, poteva fare molto per porre fine a quella che è una vera e propria ecatombe di processi, ma non ha fatto nulla perché il disegno di legge, presentato nel 2014, non è stato ad oggi ancora approvato con la conseguenza che tutti i reati nel frattempo commessi e che saranno commessi fino all’approvazione della nuova legge cadranno anch’essi sotto la scure della normativa vigente.
Per la verità, una certa fretta Renzi l’ha dimostrata quando ha dichiarato che bisogna “togliere il freno a mano” alla riforma del processo penale, ferma, da mesi, al Senato, ma sol perché essa contiene una norma scritta per azzerare “i pettegolezzi” dalle intercettazioni pubblicabili sui giornali. In proposito, il Premier, affrontando la vicenda Tempa Rossa, si è inalberato perché “è un fatto grave che sia stato a lungo intercettato il capo di una forza armata (l’ammiraglio De Giorgi, indagato a Potenza) ed ha ribadito che “ciò non che non è penalmente rilevante” non deve finire nei brogliacci della polizia giudiziaria e sui giornali; ha tirato fuori il solito abusato ritornello dell’“offensiva mediatica”, che altro non è se non la doverosa pubblicazione di fatti emersi da indagini investigative e portati a conoscenza dei cittadini.
Ora, da parte di chi si è autoproclamato “rottamatore” e vuole “cambiare il Paese”, ci saremmo aspettati un plauso per gli esiti delle intercettazioni e la pubblicazione dei contenuti che hanno permesso di accertare e far conoscere, da un lato, un sistema di malaffare, rapporti tra petrolieri e affaristi con esponenti politici e lobby che premono sul Governo per ottenere provvedimenti di favore; e, dall’altro lato, un modo di essere, di comportarsi e di esternare di soggetti pubblici, tutt’altro che edificante. Allora: premesso che la circostanza che sia stato intercettato il capo di una forza armata non dovrebbe, in verità, meravigliare nessuno perché, in ossequio al principio che tutti sono uguali davanti alla legge, tutti possono essere intercettati (fatte salve le eccezioni di legge tra le quali non rientrano i vertici militari e neanche i ministri, se non parlamentari), va ricordato che il diritto di cercare, diffondere e ricevere le informazioni è fondamentale per la sussistenza di una democrazia.
La piena libertà di informazione è indispensabile per individuare e stigmatizzare tutti quei comportamenti che configurino delle responsabilità politiche e morali, indipendentemente dall’accertamento di eventuali responsabilità penali che spetta esclusivamente alla magistratura. Spetta a tutti i cittadini, e in particolare ai giornalisti, il diritto-dovere di far conoscere, criticare e analizzare liberamente i comportamenti degli uomini pubblici, che devono essere trasparenti e sottoposti al massimo controllo democratico.
Purtroppo, sicuramente, la norma “bavaglio” sarà approvata. In questo modo, certo, “si cambia il Paese”. Ma in peggio.
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