Il prossimo sindaco di Milano? Marco Tronchetti Provera. E se poi fosse una donna? Letizia Moratti. Ma alla fine trionferà un clone perfetto dei due, la prima creatura del Partito della Nazione. Un robot alto e snello di nome Giuseppe Sala, Beppe per gli amici elettori, il super manager tutta casa, chiesa e poteri (chiamateli, se volete, forti) sta già conquistando il cuore delle vaste periferie milanesi, dove – sbarcato per la prima volta da quando è nato – sta diffondendo il suo Verbo. Il fuoco della passione politica arde nel suo petto, la missione sta crescendo come il lievito per un Tre Marie fresco di forno, l’estasi mistica pervade i suoi ingranaggi e riflette sul consenso che già raccoglie – in occasione delle pre primarie Pd – tra i suoi amati concittadini: “il più numero più alto di firme le abbiamo raccolte al Giambellino”, il quartiere milanese passato alla storia per il suo bar cantato da Gaber. E lui, il fresco Cerutti Gino, agli amici confida che il suo cuore ha sempre battuto a sinistra, Pci, poi Pds, Ds e ora Pd naturalmente. Ma sempre “aperto”, come i cancelli del suo Expo che hanno accolto il mondo.
E la sua vita è stato un cantiere continuo, un’esistenza da lavori (imponenti) in corso h24. E val la pena di percorrerne le tappe in rapida carrellata.
Fresco di laurea in Bocconi, entra subito alla Pirelli, 1983. Vi resta per quasi vent’anni, una carriera che non conosce soste ma solo super promozioni, soprattutto quando il padrone diventa Marco Tronchetti Provera, che oggi lo incorona sindaco: “Voterò per lui, è un uomo perbene e serio”. Non a caso si è occupato, nella storica azienda di gomme, del “controllo di gestione”, di “pianificazione strategica”, di “valutazione degli investimenti”, di “nuove iniziative di business”. Per cinque anni, dal 1994 al 1998, a capo della “Direzione controllo di gestione” alla Pneumatici Pirelli, poi amministratore delegato, nonchè “Senior Vice President Operations” e, per non farsi mancare niente, al vertice delle strutture industriali e logistiche del “Tyre Sector” targato Pirelli. Poi si aprono gli scenari telematici, seguendo come una fedelissima ombra le orme del Capo. Ecco la seconda, irresistibile ascesa: 2002, Chief Financial Officer (tanto per dire, responsabile finanziario) di TIM; 2003, Assistente del Presidente di Telecom Italia, di cui subito diventa Direttore generale. 2005, con la fusione fra TIM e Telecom Italia, resta in sella come direttore generale. Gli “stipendi” non sono proprio da metalmeccanico del Giambellino: 3 milioni di euro nel 2004 (grazie a un “bonus” che gli permette di quintuplicare rispetto all’anno precedente), 2 e mezzo nel 2005 (comincia la crisi…), e altrettanti nel 2006. Ma lui, Beppe, ha deciso di prendersi una pausa riflessione, tanto per godersi la buonuscita (secondo alcune stime 3 milioni; secondo calcoli più generosi sfiorerebbe i 5) e fare qualche lavoretto privato. Con tre amici, infatti, fonda la Medhelan Management & Finance (“eravamo quattro amici al bar”), dove diventa presidente della collegata società di consulenza; mentre il tempo libero lo dedica alla prestigiosa Nomura Bank, di cui viene nominato Senior advisor.
Ma sente di dover spendere tutte le sue energie per la gente. L’impegno al servizio della collettività lo chiama. Per la precisione, a chiamarlo è Bruno Ermolli, “il più potente lobbista del Nord” e super consulente di Silvio Berlusconi nella scelta degli uomini giusti da collocare al posto giusto, come ad esempio capita con la scelta dei “capitani coraggiosi”, la cordata di imprenditori privati arruolati per conto dell’allora premier in occasione del salvataggio Alitalia (operazione voluta e finanziata dall’Intesa Sanpaolo guidata da Corrado Passera, impegnato anche col supertreno Italo). Ed è proprio Ermolli a trovare in Sala l’uomo ad hoc per rimettere in sesto i conti di palazzo Marino, con Letizia Moratti sindaco. Uno stipendio da fame, appena 260 mila euro, quel misero tetto massimo previsto per gli emolumenti dei più alti burocrati dello Stato. Ma tant’è, per “servire il popolo” questo e altro. Al suo fianco Marco Pogliani (super comunicatore per Mondadori, Enel, IBM, Olivetti) e Roberto Arditti, per anni autore di “Porta a Porta” ed ex portavoce di Claudio Scajola. Il rapporto con la famiglia Moratti si consolida nel tempo, anche se in questi giorni il nuovo Messia all’ombra della Madunina apre il suo cuore ai cronisti: Chi ha votato alle ultime amministrative, Moratti o Pisapia?”. E lui candido, cuor di sinistra: “Pisapia”.
Sarà il tandem forzista Moratti-Formigoni a volerlo sulla poltrona maxima dell’Expo, sempre con la benedizione di San Ermolli, che in quell’operazione crede ciecamente (è una sorta di “ambasciatore” nella prima fase dell’Expo). Prende il posto, Sala, di Lucio Stanca, ex ministro berlusconiano per l’Innovazione, altro grande amico dello stesso Ermolli. Il quale, dal canto suo, è vicino a Sala anche nell’opera di sensibilizzazione dei privati per la fase di primo lancio della mega rassegna. Guarda caso, a capeggiare la nuova cordata pro Expo sarà proprio la carissima Telecom Italia, che apre subito i cordoni della borsa con la bellezza di 43 milioni di euro tra contributi finanziari, beni e servizi. Così scriveva il Fatto quotidiano il 28 settembre 2011: dopo l’appello lanciato dagli organizzatori dell’Expo 2015 per attirare finanziatori, il primo partner è arrivato. E’ Telecom Italia, vincitore della gara d’appalto alla quale – ha sottolineato il governatore Roberto Formigoni – “avevano partecipato tanti altri privati perchè hanno capito la grande occasione che Expo rappresenta”.
Siamo tornati a casa, Telecom. Osserva un operatore finanziario milanese: “Un vero miracolato, Sala. E’ uscito indenne da ogni ciclone giudiziario che gli si scatenava intorno. E’ successo all’Expo, dove i vertici sono tutti finiti sotto inchiesta, con pesanti accuse, come i suoi più stretti e fidati collaboratori, il generale manager Angelo Paris e il suo vice Angelo Acerbo (e le dimissioni di Sala vennero subito respinte dal sindaco Pisapia, mentre perfino il presidente Giorgio Napolitano implorava Sala di restare al timone e non abbandonare la nave). Lo stesso era successo con lo scandalo degli spioni, il gruppo di 007 della securtity Telecom-Pirelli guidato dal tandem Tavaroli-Mancini, con migliaia di dossieraggi illegali. A quel tempo Sala era direttore generale Telecom. Poteva non sapere anche lui, “come non sapeva niente il suo Capo”? Fatto sta che quella vicenda è finita a tarallucci e vino per il patròn Tronchetti, il quale “poteva non sapere”, secondo l’incredibile sentenza e le fresche motivazioni del tribunale di Milano (come la Voce ha più volte documentato). E sul prode Sala mai l’ombra di un lontano sospetto. Anche quando lavorava in Pirelli. Il suo nome, nell’inchiesta meneghina, fa infatti capolino solo una volta, quando viene rammentato che gli “esiti degli accertamenti” (ossia i risultati di intercettazioni, spiate e quant’altro), come riferiscono ad esempio gli imputati Cipriani (uno 007 privato) e Tavaroli, il capo della security, venivano comunicati “al dottor Gori, amministratore delegato del Settore Pneumatici, al dottor Giuseppe Sala, sempre del settore Pneumatici e, per quanto riguarda il settore Cavi, il dottor Battista”.
TRONCHETTI, BOTTI DI FINE ANNO PERFETTI
Un fine anno col botto, in casa di Marco & Afef. Dissipata ogni nube tra i due colombi, soprattutto dopo che la sentenza ha escluso ogni coinvolgimento del marito nelle spiate dei suoi dipendenti. Tra le migliaia di osservati speciali di quei “servitori infedeli” che lavoravano per il Capo all’insaputa del Capo, anche la mogliettina Afef, sulla quale il Marco-Otello nutriva qualche piccolo sospetto. Così come su Bobo Vieri, il centravanti della sua Inter, o Luciano Moggi, il manager dell’odiata Juve; o su altre centinaia e centinaia di ‘possibili’ nemici.
Ma un’altra storica sentenza sta allietando i cenoni di casa Tronchetti. A pronunciarla, anche stavolta, il foro di Milano, dove sono state appena rese note le motivazioni con cui il giudice monocratico, Monica Amicone, lo assolve da ogni accusa in seguito alla denuncia per diffamazione presentata da Carlo De De Benedetti: per la serie, quando due big se le danno di santa ragione. Ecco i fatti. Due anni fa, intervistato da Giovanni Minoli, l’editore di Repubblica ed Espresso (che di recente s’è beccato anche una condanna per l’amianto di casa Olivetti) attacca mister pneumatico sostenendo che ha causato “la distruzione di Telecom”. Furibonda la reazione di Tronchetti, che accusa a sua volta l’ingegnere di una serie di fatti & misfatti a suo parere perpetrati dal rivale: manca solo il guanto di sfida, per il resto c’è di tutto, dai bilanci Olivetti alla Fiat, dagli appalti con le Poste al crac dell’Ambrosiano fino a Tangentopoli. “Il fatto non costituisce reato”, ha stabilito l’Amicone, perchè l’intemerato ex patròn Telecom ha esercitato in pieno il “diritto di cronaca”. Vero è – viene precisato dalla toga meneghina – che quelle espressioni possono considerarsi “potenzialmente lesive”, ma occorre contestualizzare i fatti, dal momento che le frasi sono state pronunciate in “un clima di aspro confronto”. E – ciliegina sulla torta – si tratta di affermazioni “non false”.
Una sentenza, dunque, che fa storia. Una storia che pesa (o dovrebbe pesare) come un macigno sulle spalle del patròn della libera informazione. A questo punto sappiamo per certo una serie di cose: 1) i bilanci Olivetti sono stati per diversi anni taroccati. Almeno quelli del triennio ’94-’96. Una sentenza del tribunale di Ivrea del 1999, infatti, condannò l’ingegnere a tre mesi (poi convertiti in una sanzione da 50 milioni di lire) per “indebita anticipazione di ricavi”; 2) caso Banco Ambrosiano. De Benedetti è un vero “miracolato” perchè l’ha passata liscia nonostante due condanne da novanta per bancarotta: una a 6 anni e 3 mesi nel ’92, e l’altra a 4 anni e 6 mesi in appello nel ’96; 3) le tangenti alle Poste, ossia 10 miliardi di lire versate dai manager di Ivrea per aggiudicarsi appalti informatici alle Poste. Ci fu un arresto lampo dell’ingegnere nel ’93, poi tutto si risolse con prescrizione della corruzione e assoluzione dal peculato: “fui parzialmente assolto e parzialmente prescritto”, ammise lo stesso De Benedetti.
Ma mister Afef può brindare anche su conti & cifre. E sul fresco matrimonio “giallo”: oggi il 65 per cento delle azioni Pirelli è in mano al colosso pubblico di ChemCina. A dipingere in chiaroscuro la situazione è Sara Bennewitz, proprio sulle colonne di Repubblica (dal Corsera, of course, continue genuflessioni dinanzi al privato che in Telecom story “osò sfidare i Poteri forti”, sic). “Regalo di Natale in casa Pirelli”, commenta Bennewitz. “Il gruppo degli pneumatici si fonde con il veicolo (Marco Polo) che si è indebitato per lanciare l’Opa e ritirare il titolo da piazza Affari. L’operazione in gergo si chiama leverage buy out, è molto frequente quando a comprare è un fondo di private equity, mentre di solito non piace agli investitori industriali perchè mette a rischio la capacità di sviluppare il core business”. In soldoni, un acquisto che “piace” soprattutto ai finanzieri, perchè compri con i soldi che le banche ti prestano dando in garanzia proprio quello che stai comprando: così fece, una dozzina d’anni fa, il mattonaro allora dalemiano Alfio Marchini (prossimo candidato al Campidoglio) per “acquistare” lo storico gruppo Risanamento di Napoli ad un “prezzo d’affezione” (e coi soldi delle banche).
Continua l’analisi di Bennewitz: “Già nel 2016 Pirelli si troverà caricata di oltre 5 miliardi di debiti (contro gli 850 milioni stimati al 2015). Nel 2003 Telecom Italia fu caricata dei debiti della scalata di Gnutti e Colaninno, operazione che Tronchetti avvallò (così nel testo, ndr) giudicando finanziariamente sostenibile la fusione Olivetti-Telecom. (…) Telecom ha lesinato sugli investimenti per pagare le cedole e da due anni e mezzo il suo debito è junk: spazzatura”.
Quando la finanza, anche travestita per via “industriale”, diventa monnezza. E’ “l’odore” arriva fino ai piedi della Madunina…
In apertura Giuseppe Sala e, a destra, Marco Tronchetti Provera. Qui sopra, Carlo De Benedetti
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