La sua Montella lo ricorda nel centenario della morte.
“Dacché è caduto il fascismo, ogni anno, verso la fine di febbraio, Montella commemora la morte di Ferdinando Cianciulli. Potrebbe sembrare cronaca paesana; perciò, è doveroso chiedersi subito: questo tributo d’affetto è cosa che interessa solo Montella o l’Irpinia tutta? O, meglio, appartiene la figura di F. Cianciulli soltanto alla storia del suo paese oppure anche a quella della sua provincia, per non dire a quella del Mezzogiorno d’Italia o del movimento operaio e contadino italiano?”.
Il duplice interrogativo retorico formulato settant’anni fa da Attilio Marinari (Illustre intellettuale progressista di Montella, che fu anche apprezzato preside del Liceo “Mamiani” di Roma nella stagione del Sessantotto) riassume egregiamente la portata storica dell’apostolo del socialismo irpino, come Marinari definisce il suo conterraneo nell’articolo su “Il Progresso irpino” del 13 marzo 1952, a ridosso del trentesimo anniversario (22 febbraio 1922) dell’uccisione di Ferdinando Cianciulli, riproposto alcuni anni dopo da Marinari su “La Voce socialista”.
Il dirigente politico e sindacale, agitatore e giornalista di Montella rappresenta ancora oggi un riferimento ideale insostituibile per la sua comunità (“In Montella egli è amato non solo da chi lo conobbe e lottò con lui o guardò con simpatia alla sua azione, ma anche da giovani che non lo conobbero, per i quali il suo esempio è divenuto incitamento e guida”: il testo di Marinari non ha perso nulla della sua freschezza) e, a lungo, per l’intera provincia, in particolare le poche cittadelle operaie e l’Alta Irpinia (“a Calitri, a Solofra, ad Andretta ed in tanti altri paesi della provincia c’è ancora chi lo conobbe e lottò con lui”, ricordava “Il Progresso irpino”), fino ad assumere una valenza nazionale.
Il primo segretario del Partito Comunista d’Italia, Amadeo Bordiga, al tempo della comune militanza socialista aveva voluto firmare la prefazione a Verso la vita, il testo drammatico più importante dell’eclettico leader del Psi irpino, e ancora nel secondo dopoguerra un dirigente di primo piano del Pci come Giorgio Amendola nei suoi interventi in Alta Irpinia non mancava mai di esaltarne la figura e l’esempio.
Il tributo ufficiale più solenne (e più consono alla figura di Cianciulli, che aveva speso l’intera esistenza – accanto all’amata consorte Giovannina Morrone, a sua volta esponente illustre e coraggiosa delle lotte sociali e per l’emancipazione femminile – in favore dei lavoratori, degli umili e degli oppressi) si deve tuttavia al popolo di Montella, in un’occasione di grande rilevanza storica come il secondo congresso per la rinascita del Mezzogiorno, promosso dalla sinistra politica (Pci e Psi) e sindacale (Cgil e Federterra) nel 1954 a Napoli. Negli atti, pubblicati l’anno successivo dalla rivista “Cronache Meridionali” nel volume Libertà e giustizia per il Mezzogiorno, il nome di Cianciulli risalta nell’intervento dei delegati di Montella, di cui riportiamo la parte iniziale: “Montella è stata antifascista nella parte migliore del suo popolo ed è sempre rimasta fedele alla memoria del martire antifascista Ferdinando Cianciulli, caduto ucciso dal piombo dei gerarchi fascisti, e dalla Liberazione in poi Montella si è data un’amministrazione popolare che fra i tanti meriti riguardanti i lavori pubblici, la giustizia fiscale e le iniziative più varie ha soprattutto quello di aver portato aria di libertà nel palazzo municipale, che si è trasformato in una sede ospitale per gli operai, per i contadini, per gli artigiani, per tutti gli umili lavoratori”.
Le lotte e l’esempio di Cianciulli, fino al sacrificio della vita, avevano travolto gli argini del tempo e la pochezza politica e umana dei suoi avversari, indicando alle generazioni successive la strada da percorrere per la costruzione di una società più libera e giusta.
Nella testimonianza dei contadini, degli operai e degli intellettuali progressisti di Montella si era realizzato, persino oltre le previsioni più ottimistiche, l’auspicio formulato trent’anni prima dal periodico “La Scintilla”, il più importante e diffuso giornale di ispirazione socialista pubblicato a Napoli: “Ora, egli non è più; ora egli, ostia dell’odio, dorme nel suo nativo cimitero, sotto l’alta chiostra dei monti dell’Irpinia, ed è peccato che sulla tomba, candida come l’anima che resse quelle spoglie mortali, non sieno incise le parole da lui ricordate a proposito del martirio di Giordano Bruno: Sanguis martirum semen vitae. Sì, seme di vita in tutti quelli che amano, soffrono, e sperano”, scriveva nel numero del 21 marzo del ’25 Andrea Vitelli, uno dei collaboratori più autorevoli del settimanale.
La tragica fine, sotto i colpi dei sicari dei notabili fascisti di Montella, e il successivo processo contro esecutori e mandanti dei “delitti incrociati” di Ferdinando Cianciulli e della maestra Gina Ceccacci (ricostruiti nell’omonimo libro di Cecilia Valentino per Mephite), avevano attribuito all’apostolo del socialismo irpino l’aura del martire: “Il martire di Montella”, come titolò “La Scintilla” nel convinto e commosso tributo al compagno di lotte e di idee, riproposto integralmente nel 2013 nel volume La rossa Montella, a firma di chi scrive.
“Ferdinando Cianciulli deve alla sanguigna morte la sua apoteosi”, era il lucido e icastico incipit dell’articolo di Vitelli. “Martire”, ribadirono trent’anni dopo i delegati di Montella nel congresso di Napoli. Grazie a loro, che ne avevano coraggiosamente raccolto l’eredità ideale, quella parola si connotava nel dopoguerra dell’accezione originaria (dal greco martyr: testimone), e il seme della sua testimonianza fermentava rigogliosamente nella stagione delle lotte contadine, dell’occupazione delle terre incolte, del riscatto sofferto ma irreversibile del popolo nel Mezzogiorno interno.
A rendere possibile questo approdo democratico aveva concorso, insieme all’impegno quotidiano accanto e in favore dei lavoratori, una visione politica matura e lungimirante, che partiva dalla realtà concreta e terribile dell’Irpinia nell’età liberale e poi fascista ma si alimentava di quell’internazionalismo aperto e cosmopolita che ha sempre costituito il tratto distintivo dei militanti di sinistra rispetto ai seguaci dei partiti conservatori, cattolici o reazionari: “Aveva capitò cioè – scrive Marinari nel ’52 – che il problema dei contadini meridionali era comune a quello degli operai del Nord. E perciò la sua partecipazione alla vita del movimento socialista italiano andò sempre di pari passo con la sua azione concreta tra le masse”.
Un’azione, quella di Ferdinando Cianciulli e Giovannina Morrone (rievocata poeticamente da Claudia Iandolo in Il paese bianco di Isidora vecchia, per Mephite) che nasceva da una visione pedagogica (il riscatto degli umili doveva partire dall’istruzione e dalla conoscenza) e dal binomio indissolubile tra politica e cultura. Il progresso concreto e duraturo del Mezzogiorno era a suo giudizio inscindibile dall’affermazione di valori di grande portata morale, all’epoca inediti e persino “eversivi”, come la solidarietà fra gli oppressi, il superamento dei privilegi di classe, l’uguaglianza dei diritti e di genere, la valorizzazione del lavoro e della meritocrazia. Su questo punto nevralgico l’analisi di Marinari è illuminante: “A proprie spese acquistò il materiale e le macchine necessarie per stampare il suo giornale e la domenica era sempre in piazza a leggere e a commentare a chi non sapeva leggere quanto egli aveva scritto. Da Montella a Calitri, da Andretta a Solofra la sua azione non conobbe soste, non conobbe paure. E tutta la sua lotta fu veramente eroica, perché la classe dominante locale, inferocita contro chi l’aveva «tradita» e osava predicare il riscatto degli umili rompendo l’idillica quiete delle nostre campagne, non trascurò alcun mezzo per rendergli difficile la vita: dalla bassa insinuazione, che di volta in volta lo presentò come «diavolo» o come pazzo, all’assoldamento di pregiudicati, che varie volte nell’ombra della notte gli «lisciarono le spalle», fino all’assassinio”.
Da intellettuale laico e acuto qual era, e avvezzo marxisticamente all’analisi scientifica dei processi storici e dei meccanismi della politica, a Marinari non sfuggono i limiti dell’azione di Ferdinando Cianciulli, che tuttavia contestualizza nella società irpina in cui visse, segnata in larga misura, soprattutto nei paesi più isolati ed interni, dall’egemonia di un ceto possidente protervo ed ottuso, che si circondava di fuorilegge e sicari come il don Rodrigo manzoniano, di un clero retrivo e colluso con i notabili (su cui scriverà pagine di memorabile sdegno, vent’anni dopo la morte di Cianciulli, uno scrittore del calibro di Mario Soldati), di una classe politica elitaria, incline al trasformismo e largamente corrotta. Sostanzialmente, il quadro dipinto nella prima metà del Novecento da Guido Dorso.
La comune ammirazione di Dorso e Cianculli per la figura di Giordano Bruno (opportunamente analizzata in una pubblicazione del 2004 delle edizioni Mephite: Giordano Bruno, a cura di Maurizio Cambi) è tutt’altro che casuale e rappresenta uno dei momenti più alti del fermento culturale che caratterizzò la provincia di Avellino e il suo capoluogo all’alba del Novecento: “Le fiamme del rogo illuminano l’Irpinia”, per dirla con il curatore del volume, e in linea con i promotori dell’associazione irpina intitolata al filosofo di Nola e al Libero Pensiero, fondata dall’artista Felice Storti, alla quale si devono la ristampa anastatica del numero del “Grido degli umili” dedicato a Giordano Bruno e altre meritorie iniziative.
“Ma, nonostante questi suoi limiti – è la riflessione di prospettiva e tuttora valida che Marinari affidò alle pagine del “Progresso irpino” – la figura di F. Cianciulli resta figura notevolissima nella nostra storia per la grande forza morale che la caratterizzò, per l’eroismo, a cui tutta una vita fu improntata, per la chiara posizione di fronte al privilegio, al trasformismo e alla corruzione: ed è appunto dalla sua fede e dal suo apostolato che trarrà sempre incoraggiamento e forza chiunque vorrà lottare per la redenzione di questa nostra infelice terra”.
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