“Mio padre rappresentava una bomba ad orologeria che doveva essere immediatamente disinnescata. Mio padre era quel personaggio che, se gli fosse stato consentito, avrebbe permesso di svelare tutte quelle zone d’ombra che da sempre hanno reso buia la nostra Repubblica, perché era a conoscenza di tutti quegli eventi e soggetti che collegavano gli ambienti mafiosi e criminali alle istituzioni deviate, alla politica, alla massoneria, alle eversioni di destra e ai servizi segreti”.
Parole che pesano come macigni quelle pronunciate da Luana Ilardo davanti alla Commissione parlamentare antimafia, che l’ha sentita per la prima volta. E’ la figlia di un boss, poi diventato collaboratore di giustizia, che aveva indicato la pista giusta per catturare la primula rossa Bernardo Provenzano. Ma le sue dritte non vennero ascoltate. Anzi, lui pagò con la vita, perché – come sottolinea la figlia – ormai “rappresentava una bomba ad orologeria che doveva essere immediatamente disinnescata”.
La Voce ha più volte raccontato uno degli snodi base nella guerra alle mafie, proprio la collaborazione di Ilardo, per mesi ‘gestito’ con grande coraggio e professionalità dal colonnello dei carabinieri Michele Riccio, il quale però si trovò letteralmente ‘solo’ in quell’operazione, ostacolato e poi apertamente osteggiato dai vertici del ROS: in primis dal generale Mario Obinu e dal colonnello Mario Mori, poi finiti sotto inchiesta per la mancata cattura di Provenzano (così come era successo, a Mori, per il giallo del covo di Totò Riina), quindi processati e usciti candidi come i gigli (a Mori, addirittura, viene concesso il bis).
Ma passiamo in rapida carrellata i principali passaggi dell’audizione di Luana Ilardo, raccolta in un fitto documento, 38 pagine, scritto in collaborazione con il suo legale, un vero e proprio memoriale in cui viene ripercorsa la tormentata storia del padre e vengono puntati i riflettori su depistaggi e collusioni eccellenti.
Così esordisce, ricordando le parole pronunciate dal padre all’inizio della collaborazione: “Ho deciso formalmente di collaborare con la giustizia dopo essermi reso conto di quanto effettivamente ho perduto in questi anni passati lontano dai miei familiari e dalle mie figlie, nella speranza che il mio esempio possa essere di monito e d’aiuto ai ragazzi che, come me, si sentono di raggiungere l’apice della loro vita entrando in determinate organizzazioni. L’unica cosa che mi ha spinto a fare questa scelta è stata la ricerca di normalità nella mia vita e in quella dei miei figli che amo tanto”.
Ricostruisce Luana Ilardo il ruolo svolto dal colonnello Riccio: “Fino a quando Riccio era alla DIA, si celebravano successi di indagini portate a buon fine, ma la situazione diventò anomala e parecchio confusa quando Riccio, dopo l’andata via di De Gennaro dalla DIA, non sentendosi più adeguatamente tutelato e assistito da chi lo sostituì, si vide costretto ad entrare nell’Arma venendo alle dipendenze del Ros, in particolare del generale Mario Obinu e del colonnello Mario Mori”.
“Fin dall’inizio, infatti, i rapporti tra Riccio e i Ros vennero caratterizzati da atteggiamenti poco collaborativi e di palese disinteresse da parte dei suoi diretti superiori in relazione alle attività e notizie fornite da Ilardo.
La figlia del collaboratore passa poi ad illustrare i passaggi salienti dell’operazione-Provenzano, “la chiave di tutto”, come la definisce.
“I temi discussi e le strategie operative concordate con il latitante, le esatte indicazioni per raggiungere il rifugio del latitante partendo dal bivio di Mezzojuso, le fattezze fisiche del Provenzano e dei suoi favoreggiatori, nonché il numero di targa di autovetture e numeri di cellulari di questi. Dopo circa una settimana, Mori richiamò Riccio lamentando difficoltà nell’individuazione della masseria, chiedendogli di effettuare un ulteriore sopralluogo”.
“Riccio addirittura trasmetterà coordinate geografiche al superiore comando della posizione esatta di dove si trovava Provenzano. Nei giorni seguenti arriveranno poi richieste di risvolti da parte del colonnello che però resteranno senza risposta, convincendosi sempre di più che quell’atteggiamento fosse strumentale per acquisirsi interamente i meriti della cattura di Provenzano come era accaduto per l’arresto di Riina”.
In effetti, invece, si scoprirà che Obinu, Mori e Sergio De Caprio (al secolo, il capitano ‘Ultimo’) “non predisporranno alcuna intercettazione telefonica e ambientale, nessuna sorveglianza della masseria e meno che mai l’arresto del boss, che arriverà solamente 11 anni dopo, di cui 6 trascorsi nella stessa masseria indicata da mio padre e altri 5 in una masseria accanto dove poi lo arresterà, non a caso, la polizia di stato (e non i carabinieri del Ros, quindi, ndr) l’11 aprile 2006”.
E come giustificarono i vertici del Ros, nel corso del processo, tale più che anomalo comportamento? Con “la presenza di un gregge di pecore, cani, luci accese e due silos di rilevante dimensione che rendevano difficoltosa l’operazione”: così disse Obinu in aula.
Fa il paio, la pezza a colori, con quella piazzata da Mori in occasione del processo per la mancata perquisizione del covo di Riina: “dopo mesi e mesi di appostamenti, la truppa era stanca”. E per questo motivo il famigerato covo venne lasciato incustodito per ben due settimane, tutto il tempo per far sparire carte, documenti e archivi bollenti, come quello con i 3000 nomi dei colletti bianchi (soprattutto politici) collusi con la mafia.
Luana Ilardo ricorda anche un faccia a faccia che ebbe suo padre con Mori, alla presenza di Riccio: “Mio padre lo affrontò in maniera decisa dicendogli: ‘Molti attentati che sono stati addebitati esclusivamente a Cosa nostra sono stati commissionati da voi e lo sapete bene’. Dopo queste parole Mori, irrigidendosi, si voltò di scatto e andò via senza proferire parola, rendendosi irreperibile per tutto il giorno nonostante le circostanze e il ruolo imponessero di presenziare a quell’incontro. Riccio, rimasto di stucco per quell’affermazione detta a Mori, decreterà quella frase pronunciata dalla sua fonte come la sua vera condanna a morte”.
Nell’incontro con il procuratore capo di Palermo Gian Carlo Caselli, svoltosi a quattr’occhi, “mio padre – continua la Ilardo – ricordò gli inizi della sua collaborazione, raccontando l’incontro con Provenzano e continuando a parlare per la prima volta di tutti quegli omicidi e stragi mai chiariti, avvenuti per mano mafiosa ma che hanno sempre avuto l’ombra di compartecipazioni e volontà di soggetti non appartenenti a Cosa nostra ma di ambienti istituzionali deviati”.
E fa esplicito riferimento, Luana, agli “omicidi di Claudio Domino, di Giuseppe Insalaco, di Piersanti Mattarella, della strage di Pizzolungo, del fallito attentato contro Giovanni Falcone all’Addaura e di tutti quegli elementi utili per dare una corretta chiave di lettura e un ordine alle stragi avvenute nel Paese a partire dagli anni ’70 fino a quelle del 1992”.
A proposito dell’omicidio del piccolo Claudio Domino, afferma la Ilardo: “per la prima volta qualcuno in assoluto parlò di un personaggio conosciuto come ‘Faccia da mostro’, successivamente identificato come Giovanni Aiello, ex poliziotto contiguo ai servizi segreti”.
Finito quell’incontro, continua la ricostruzione, “Caselli si premurò di chiedere a Riccio di iniziare un percorso di registrazione con Ilardo, in modo da anticipare i temi che successivamente sarebbero stati trattati. A pochi metri di distanza, invece, il generale Subranni (allora al vertice del Ros, ndr), in compagnia del dottor Tinebra (allora procuratore capo a Caltanissetta, ndr), che durante l’incontro si alzò più volte disinteressato, avrebbe invitato il Riccio a non effettuare alcuna registrazione in quanto sarebbero state inutili perché non avrebbero potuto avere alcuna valenza probatoria. Ilardo disse poi a Riccio che avrebbe riferito fatti inerenti anche il generale Subranni”.
Delle 4 ore di colloqui quindi non resta niente. Quella sera Ilardo fece rientro a Catania, senza alcuna protezione. Il successivo incontro era stato programmato a breve, per il 14 maggio, in veste ufficiale di collaboratore di giustizia. Un incontro che non è mai svolto, perché 4 giorni prima Ilardo venne ammazzato.
Così ricorda quei drammatici giorni la figlia, davanti ai commissari antimafia: “Il 10 maggio Riccio incontrò il capitano Antonio Damiano, il quale gli disse che dalla procura di Caltanissetta era trapelata all’esterno la notizia che Luigi Ilardo avesse intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia, individuando le responsabilità delle fughe di notizie nelle figure del dottor Tinebra e del dottor Giordano. Riccio chiamò i suoi superiori adirato e poi telefonò a casa nostra”.
Scopri di più da La voce Delle Voci
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.