A 29 anni dalla strage di via D’Amelio siamo di nuovo alla parata dell’ipocrisia, alle vomitevoli parole istituzionali di rito, quando ormai anche le pietre sanno che si trattò di un eccidio di Stato, una strage di pretta matrice istituzionale, con la mafia nelle vesti di semplice esecutore materiale.
Proprio per questo quelle parole risultano vomitevoli e al tempo stesso raccapriccianti. Sintomo di un potere che continua a calpestare la memoria di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, al punto che l’indomita figlia di Paolo, Fiammetta, non ha preso parte ad alcun momento di totale ipocrisia celebrativa.
Un potere che continua a fregarsene dei diritti dei cittadini a conoscere verità e giustizia, come del resto sono lì a testimoniarlo tutti i buchi neri della nostra storia, altrettante vergogne di Stato, perché sempre si tratta – regolarmente – di stragi e omicidi di Stato. Come Ustica, per fare solo uno tra i tanti esempi possibili.
Tornando alla strage di via D’Amelio, come è possibile che in un paese che osa definirsi civile, del progredito e democratico occidente, possa accadere che si svolgano ben 4 processi senza che la magistratura sia riuscita a cavare un ragno dal buco?
Come è possibile che la gran parte di questi quasi trent’anni siano trascorsi fra inchieste e quindi processi taroccati fin dall’inizio?
Che siano stati condannati al primo processo (passato per tutti i suoi tre gradi) dei soggetti che non c’entravano niente con la strage ma si sono beccati e fatti 16 anni di galera da innocenti? Come del resto è successo – pari pari – con l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, con un somalo innocente sbattuto in gattabuia per altrettanti anni sulla base di una sola testimonianza, quella di un altro somalo imbeccato dalle nostre ‘istituzioni’ (sic).
Ed anche per la strage di via D’Amelio i magistrati che hanno condotto le inchieste e guidato il primo processo si sono abbeverati alla fonte di un pentito taroccato, quel Vincenzo Scarantino la cui testimonianza è alla base del più clamoroso depistaggio di Stato che si sia mai verificato nel nostro martoriato Paese.
Ha pagato qualcosa qualcuno per quel depistaggio?
E’ in corso il processo di primo grado che vede alla sbarra 3 poliziotti all’epoca coordinati dall’ex prefetto di Palermo Augusto La Barbera, il quale non può più rispondere alle accuse – lui che è ora diventato il bersaglio facile facile al quale affibbiare ogni responsabilità – perché è passato a miglior vita da quindici anni.
Archiviata, invece, la posizione dei due magistrati che per primi guidarono quelle indagini, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Ben strano che le due toghe fossero all’oscuro di quanto stava tramando la ‘La Barbera band’!
Mai chiarito, poi, il mistero dell’agenda rossa, la chiave per capire la strage di Capaci e per decodificare i momenti che hanno subito dopo portato a ideare quella di via D’Amelio. Sparita, volatilizzata. Un rapidissimo processo ha assolto un capitano dei carabinieri che l’ha avuta tra le mani, immortalato dalle telecamere. Secondo il racconto di una giornalista antimafia, Roberta Ruscica, l’agenda è passata anche per le mani della stessa Palma. Poi il silenzio più tombale, la nebbia più impenetrabile. L’omertà che si taglia a fette, collusioni e complicità da brividi.
Occorre che un pentito eccellente parli, che un politico vuoti il sacco: è l’auspicio di chi vuol ancora una volta ingannare gli italiani.
Chi mai, oggi, che ha costruito la sua fortuna sul sangue e sulla menzogna, parlerebbe?
La verità ci sono, contenute nelle carte e nei documenti custoditi ancora nelle ovattate stanze del Potere: proprio come l’agenda rossa.
Ma nessuno ha la più lontana intenzione di andarle a prendere. Perché altrimenti anche quel poco che resta del Palazzo – ma che significa ancora molto nella geografia del Potere – crolla.
E’, quindi, Depistaggio continuo.
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