Dalla voce più alta del giornalismo italiano, Ossigeno per l’informazione, riportiamo tre articoli che fanno il punto sulla grave situazione in atto a danno del diritto dei cittadini di essere informati e della democrazia tutta nel nostro Paese. Gli autori sono Alberto Spampinato, fondatore e direttore di Ossigeno, il penalista Andrea Di Pietro, che attraverso lo sportello di Ossigeno contro le querele a scopo intimidatorio sostiene e fa vivere decine e decine di testate indipendenti, e Giuseppe Mennella, altra colonna di Ossigeno.
CARCERE SÌ O NO? ORA IL GOVERNO DEVE CHIARIRE
di Alberto Spampinato
La memoria depositata alla Consulta segna un passo indietro rispetto al Parlamento e fino a prova contraria rispecchia la posizione dell’esecutivo
Ossigeno per l’Informazione considera di eccezionale gravità politica la posizione manifestata dall’Avvocatura dello Stato a favore della permanenza nell’ordinamento giuridico di norme che puniscono con il carcere i giornalisti che incorrono nel reato di diffamazione, pur facendo il loro dovere. Questa posizione rispecchia quella del governo italiano, e sarà così finché non sarà stata rettificata o smentita.
Per la permanenza di queste norme nei codici, l’Italia è già stata sanzionata più volte dalla Corte europea dei diritti umani. Ricordiamo che nel 2012, quando il giornalista Alessandro Sallusti fu condannato a 14 mesi di carcere, scoppiò uno scandalo internazionale al quale il Capo dello Stato Giorgio Napolitano riparò commutando la pena in una multa e chiedendo al Parlamento di cambiare subito quelle norme. Agì come avevano già fatto altri presidenti della Repubblica prima di lui in casi analoghi.
Ci auguriamo che il governo rifletta su questi precedenti e sui riflessi che la difesa del carcere per diffamazione potrebbe avere a livello internazionale sull’immagine dell’Italia. Il governo può cogliere questa occasione per allineare il paese – come sarebbe doveroso – alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani. La quale è, in modo univoco e costante, contraria all’esistenza stessa di norme che prevedano il carcere per i giornalisti. Una pena che ritiene ammissibile soltanto per la diffamazione a mezzo stampa che configuri incitamento all’odio e alla violenza.
Il governo, guidato dall’ “avvocato del popolo”, dovrebbe compiere un ulteriore passo avanti abbracciando la causa della depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa sollecitata dall’Onu e dalle istituzioni europee e mai presa in considerazione in Italia. Dovrebbe dare un alito di vita ai disegni di legge che intendono riformare le norme che prevedono pene pesanti per i giornalisti in caso di diffamazione a mezzo stampa e, per l’appunto, la sostituzione della pena del carcere con la multa. In altre parole, Ossigeno chiede che il governo italiano resti (o si collochi, finalmente) nel solco della Costituzione, dei principi introdotti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Alberto Spampinato
CORTOCIRCUITO SUL CARCERE PER I GIORNALISTI
Perché la memoria depositata alla Corte Costituzionale appare incongruente rispetto agli orientamenti del Parlamento e della Corte Europea dei Diritti Umani
Di Andrea Di Pietro
Aprile doveva essere il mese della decisione, attesissima, sulla legittimità costituzionale dell’articolo 595 del codice penale e dell’articolo 13 della legge sulla stampa n. 47 del 1948. Oggetto di scrutinio doveva essere la parte in cui queste norme prevedono ancora oggi la pena detentiva per il reato di diffamazione che, se commesso con il mezzo della stampa, diventa un problema serio per la professione giornalistica.
La questione è strategica ed è dibattuta da molti anni. Dal 2001 si sono succeduti, infatti, vari disegni di legge che hanno previsto espressamente l’abolizione del carcere per la diffamazione, ma, con fortune alterne, nessuno di essi è mai riuscito a diventare legge dello Stato.
La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, dal canto suo, sin dal 1996 (con la sentenza Cumpana e Mazare c. Romania) invita gli Stati membri a rimuovere le norme che prevedono il carcere per i giornalisti perché in contrasto con l’articolo 10 della Convezione EDU.
Successivamente a Strasburgo c’è stata la sentenza Belpietro del 2013 e da ultimo la sentenza Sallusti del 7 marzo 2019. Queste due ultime pronunce, ancora una volta, hanno condannato l’Italia per violazione dell’articolo 10 CEDU. Nonostante l’univoca e costante giurisprudenza europea, sempre critica nei confronti delle norme italiane sul carcere per i giornalisti, il legislatore non è mai riuscito ad approvare una legge abrogativa di quelle norme.
Lo scorso anno, prima il Tribunale di Salerno e poi quello di Modugno-Bari hanno rimesso la questione di costituzionalità alla Consulta che, prima di pronunciarsi, avrebbe dovuto sentire le parti costituite nelle pubbliche udienze del 21 e del 22 aprile 2020.
Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, anch’esso intervenuto nel giudizio di legittimità, non ha però prestato il consenso alla trattazione camerale della questione, ritenendo necessaria la partecipazione delle parti e insistendo quindi nell’affermazione di principio secondo cui la questione, quando l’emergenza sanitaria sarà finalmente rientrata, deve meritare un dibattito nell’ambito di una pubblica udienza.
Per completezza deve essere ricordato che il legale del SUGC, Sindacato unitario giornalisti della Campania, che aveva sollevato la questione dinanzi al Tribunale di Salerno, aveva espresso consenso alla rinuncia alla discussione pubblica, così come l’Avvocatura dello Stato che, con una breve memoria, ha sorpreso tutti chiedendo che la questione dell’illegittimità costituzionale delle norme che prevedono la pena detentiva per i giornalisti sia dichiarata inammissibile e comunque infondata. Con ciò, di fatto, difendendo il mantenimento dello status quo che prevede una pena fino a sei anni di reclusione per il giornalista condannato per il reato di diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di fatto determinato.
Ed è proprio la posizione inopinatamente assunta dall’Avvocatura dello Stato che ha indotto l’Ordine nazionale a invocare un confronto interno alle istituzioni governative. Occorre infatti comprendere quale sia effettivamente la posizione dello Stato italiano, considerata la palese incongruenza che emerge dalla memoria difensiva depositata dalla Avvocatura rispetto alle pregresse iniziative legislative assunte in materia di abolizione del carcere per i giornalisti. Questo confronto, per ragioni sin troppo ovvie, non può esserci in questo momento storico.
Al netto della accesa polemica poi innestatasi tra Ordine e SUGC sull’opportunità o meno del rinvio dell’udienza, che rischia effettivamente di rimandare sine die una decisione fondamentale per la libertà di informazione, credo che la posizione assunta dalla Avvocatura dello Stato, sia detto con il dovuto rispetto, appaia ormai anacronistica rispetto all’evoluzione giurisprudenziale europea sulla materia.
Già con la proposta di legge Pecorella-Costa presentata l’8 maggio 2008 si prevedeva l’abolizione del carcere per i giornalisti e così con le proposte di legge successive, tutte diverse, tutte naufragate, ma tutte accomunate dalla volontà politica di modificare il regime sanzionatorio della diffamazione a mezzo stampa.
Viene quindi da interrogarsi del perché l’Avvocatura dello Stato abbia imboccato la via del regresso giuridico, assumendo una posizione che appare incurante non soltanto della volontà del Parlamento, ma anche degli ultimi governi in carica, dell’opinione pubblica tutta (basti pensare alla trasversalità del sostegno ricevuto dal caso Sallusti) e, soprattutto, dei continui richiami della Corte EDU.
Per comprendere in che cosa concretamente consista il contrasto giuridico tra le norme italiane che prevedono il carcere per i giornalisti e l’articolo 10 CEDU, non esistono forse parole migliori di quelle spese dalla Corte EDU nella sentenza Cumpana e Mazare c. Romania del 1996, dove si dice efficacemente che “L’effetto dissuasivo che il timore di sanzioni di questo tipo [il carcere, n.d.r.] comporta per l’esercizio da parte dei giornalisti della loro libertà di espressione è evidente e nocivo per la società nel suo complesso. La Corte considera che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nell’ambito della stampa sia compatibile con la libertà di espressione giornalistica sancita dall’art. 10 solo in circostanze eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano gravemente lesi, come nel caso, ad esempio, della diffusione di un discorso di odio o di incitazione alla violenza”.
In tutti gli altri casi, invece, quando si ha a che fare con il giornalismo vero e proprio, indipendentemente da quanto sia grave la diffamazione, la pena detentiva non dovrebbe mai trovare spazio in una previsione di legge.
Avvocato Andrea Di Pietro – coordinatore dell’Ufficio di Assistenza Legale Gratuita di Ossigeno per l’Informazione
AL GOVERNO PIACE IL CARCERE PER I GIORNALISTI
di Giuseppe F. Mennella
Lo fa pensare la memoria dell’Avvocatura dello Stato depositata alla Consulta che deve giudicare due eccezioni di costituzionalità all’applicazione di questa pena ai colpevoli di diffamazione a mezzo stampa
Adesso sappiamo che il governo italiano non disdegna l’idea di veder finire qualche giornalista nelle patrie galere. Lo sappiamo, o meglio lo deduciamo, poiché l’Avvocatura dello Stato, chiamata a rappresentare la posizione della presidenza del Consiglio davanti alla Corte Costituzionale, sostiene questa tesi, nero su bianco, nella “memoria difensiva” depositata il 31 marzo 2020 presso la Consulta.
In quella memoria, l’Avvocatura dello Stato sostiene la legittimità costituzionale delle norme che prevedono la pena detentiva per i giornalisti condannati per diffamazione con l’aggravante del mezzo della stampa e dell’attribuzione di fatto determinato.
È questa, dunque, la posizione del governo Conte su una questione di grande delicatezza? Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, lo ha chiesto senza ottenere risposta. Vedremo più avanti se questo silenzio esprime imbarazzo o consenso. È necessario conoscere l’orientamento del presidente del Consiglio dei Ministri su una materia così rilevante per uno Stato democratico. Il procedimento presso la Corte Costituzionale, quando si svolgerà, fornirà un’ulteriore occasione per cambiare o confermare la posizione e ci dirà qual è la fondatezza dell’obiezione di costituzionalità in termini di diritto e di coerenza con i Trattati firmati dall’Italia.
Il governo è stato costretto a venire allo scoperto (assumendo questa posizione in contraddizione con quanto sostenuto da altri governi nelle passate legislature) perché davanti agli Ermellini pendono due giudizi incidentali di legittimità costituzionale sollevati dai giudici di Salerno e di Modugno-Bari.
Le norme sulle quali si chiede il giudizio della Corte sono l’articolo 595 del codice penale del 1930, che al terzo comma prevede una pena massima di tre anni (o la multa fino a 50mila euro) per il reato di diffamazione a mezzo stampa e l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che prevede il carcere fino a sei anni (più la multa fino a 50mila euro) se lo stesso reato è aggravato dall’attribuzione di fatto determinato. Norme vecchie di 90 e 72 anni ma ancora vigenti. E che il Parlamento tenta (o finge) di abrogare a ogni legislatura, a partire dal 2001.
Le udienze pubbliche erano in calendario per il 21 e 22 aprile. Il 21 sarebbe stata discussa la questione di legittimità costituzionale sollevata – su istanza della difesa degli imputati – dal giudice del tribunale di Salerno, davanti al quale pendeva una causa intentata contro i giornalisti Pasquale Napolitano (diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di fatto determinato) e Antonio Sasso (omesso controllo).
La presidenza della Corte Costituzionale – considerata l’emergenza sanitaria – aveva prospettato l’ipotesi di discutere la causa in camera di consiglio, senza intervento delle parti. Ciò è possibile se tutte le parti in causa sono d’accordo. Il sindacato dei giornalisti di Napoli e la presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata dall’Avvocatura dello Stato, erano favorevoli. Invece, il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti si è opposto e il suo presidente ha motivato questa scelta con l’esigenza di una trattazione pubblica alla presenza delle parti in considerazione della rilevanza della materia. La posizione dell’Ordine ha determinato un rinvio a data da destinarsi. Il rinvio e la legittima diversità di posizioni hanno generato forti polemiche nel mondo giornalistico, ma la notizia non è arrivata sui giornali che – tranne rare eccezioni – non dedicano alcuna attenzione a questi problemi che influiscono sulla libertà di informazione.
Quando la Corte costituzionale tornerà a discutere la questione sollevata dai giudici di Salerno e di Modugno-Bari potremo ascoltare – e anche vedere in streaming con quali argomenti il governo italiano sosterrà pubblicamente la tesi che i giornalisti possono/devono finire in carcere. E quando il Senato deciderà di tornare a occuparsi del disegno di legge che, tra l’altro, abolisce il carcere per i giornalisti, sarà interessante osservare quale posizione assumerà pubblicamente il governo (presidenza del Consiglio, ministro della Giustizia, sottosegretario all’Editoria).
Giuseppe F. Mennella
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Un commento su “Peggio del fascismo: il Governo insiste sul carcere per i giornalisti”