35 anni fa la strage di Pizzolungo per far saltare in aria il magistrato coraggio Carlo Palermo e nella quale vennero ammazzati la trentenne Barbara Rizzo e i suoi due gemellini, Giuseppe e Salvatore Asta.
Oggi è in corso al tribunale di Caltanissetta il quarto processo, che vede sul banco degli imputati il boss Vincenzo Galatolo, già condannato all’ergastolo per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Galatolo è accusato di essere stato non solo il mandante della strage, ma anche di aver per primo pensato e ideato l’attentato a Carlo Palermo.
Un magistrato all’epoca molto pericoloso non solo per la mafia, ma anche per i livelli collusi della politica già in vena di tangenti. Un mix davvero “esplosivo”.
Torniamo con la memoria a quei tragici fatti.
UN MAGISTRATO DA FAR SALTARE
Il 2 aprile 1985, lungo la statale che porta da Palermo a Trapani, un’auto imbottita di tritolo, piazzata sul ciglio della strada, salta per aria. L’obiettivo è la 132 blindata dove si trova Carlo Palermo con la sua scorta. L’auto era seguita da una Fiat Ritmo non blindata con altri due agenti a bordo.
Ma nel momento della tremenda esplosione, la 132 stava superando una terza auto, una Volkswagen Scirocco guidata da Barbara Rizzo, 30 anni, in compagnia dei figli di 6 anni Giuseppe e Salvatore.
Ed è proprio quest’ultima vettura a rimanere completamente distrutta con i tre corpi carbonizzati. Solo ferite lievi per Palermo e i due agenti con lui, Rosario Di Maggio (alla guida) e Raffaele Mercurio. Gravi le ferite riportate dagli altri due, Antonio Ruggirello e Salvatore La Porta, che poi saranno dichiarati inabili al servizio.
Per la strage vennero condannati all’ergastolo, come mandanti, i capi mafia di Palermo e Trapani, ossia Totò Riina e Vincenzo Virga; nonché Nino Madonia e Balduccio Di Maggio per aver portato a Trapani l’esplosivo utilizzato.
Commenta Antimafia Duemila: “Un processo che mise in evidenza le ‘voragini’ di verità che si aprirono nel primo procedimento aperto contro i boss Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia. I tre, individuati già nel 1987, furono condannati in primo grado all’ergastolo, per poi essere assolti in appello. L’ex boss di San Giuseppe, Giovanni Brusca, sentito al processo contro Messina Denaro per le stragi del 1992, ha svelato che Riina diede ordine al capo mafia di Caltanissetta, Piddu Madonia, di ‘avvicinare’ i giudici del processo di Pizzolungo per ‘aggiustare il processo’. I pentiti, e le indagini successive, hanno indicato Calabrò, Milazzo e Melodia come gli esecutori. Ma non possono essere riprocessati, per via del ‘ne bis in idem’: per cui non possono tornare imputati di un reato per il quale esiste una sentenza definitiva di assoluzione”.
Follie della giustizia di casa nostra.
ECCOCI AL QUARTO PROCESSO
Il quarto processo iniziato a Caltanissetta, comunque, vede alla sbarra Vincenzo Galatolo, il capo della famiglia dell’Acquasanta, molto vicina ad ambienti deviati dei servizi segreti. Furono i Galatolo, 31 anni fa, ad organizzare il fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone: “menti raffinatissime”, etichettò poi i promotori il giudice scampato per un miracolo.
Un processo che nasce dalle dichiarazioni del pentito Francesco Onorato e della “figlia ribelle” del boss, Giovanna Galatolo. A settembre 2019 il pm, Gabriele Paci, al termine della sua requisitoria ha chiesto 30 anni di galera per Vincenzo Galatolo.
Ma dal processo, celebrato con rito abbreviato, difficilmente uscirà una spiegazione esaustiva circa i motivi che portarono all’attentato che aveva come obiettivo Carlo Palermo, sbarcato in Sicilia solo pochi mesi prima, in arrivo dalla procura di Trento dove aveva portato avanti inchieste bollenti soprattutto sui versanti della corruzione, dei rapporti mafia-politica, delle maxi tangenti di “Stato”, dei riciclaggi spinti: di tutto e di più in quelle esplosive inchieste.
Secondo non pochi, poi, c’è stato anche lo zampino massonico nella strage di Pizzolungo: visto che il nome di Gioacchino Calabrò fa capolino tra le carte della loggia segreta “Iside 2”.
Ecco come lo stesso Palermo parla di quella strage: “Io nel 1985 ho avuto la fortuna di sopravvivere alla rivelazione di alcuni segreti di Stato. Sono stati condannati boss mafiosi. Ma non erano i soli a volermi eliminare. Mi ero avvicinato ad alcuni nomi intoccabili e che infatti non sono mai usciti. Dalla Turchia arrivava la droga, che poi finiva in Sicilia e da qui smistata in Francia e negli Stati Uniti. Armi e terrorismo costituivano parti inscindibili di quei patti segreti. La prova, già allora, che la grande criminalità è un fenomeno globale e complesso. I giudici, frenati dal criterio della territorialità, giocano una sfida impari. Servirebbe un reale coordinamento internazionale delle indagini. Altrimenti è impossibile venirne a capo”.
LA STRAGE DEL SANGUE INFETTO
Torna a vivere a Trento, dopo l’attentato, Carlo Palermo. Lascia la magistratura e comincia a fare l’avvocato. Ma profonde il suo impegno civile anche nella politica. Aderisce alla neonata Rete di Leoluca Orlando, viene eletto consigliere provinciale.
E non la prende sottogamba, la politica, perché nelle sue interrogazioni c’è tutto quello spirito investigativo che l’ha sempre contraddistinto.
Fa sua una battaglia molto impegnativa, quella per denunciare i traffici di emoderivati e quello che poi diventerà lo “scandalo per il sangue infetto”.
Aveva raccolto, infatti, informazioni e notizie su strani movimenti in alcuni depositi nel Veneto, in particolare nel padovano, documentati nella sua interrogazione. Che in breve diventa una corposa “notitia criminis” che dà il via a massicce investigazioni delle fiamme gialle e ad un’inchiesta della magistratura trentina. E la procura acquisisce il dossier Palermo, del quale fa parte il volume “Sua Sanità”, edito a febbraio 1992 dalla trentina “Publiprint”, la coraggiosa casa guidata da Eugenio Pellegrini e che aveva già dato alle stampe libri coraggiosi, come quelli di padre Alex Zanotelli e dello stesso Carlo Palermo.
E’ coedito dalla Voce, “Sua Sanità”, dedicato alle rocambolesche imprese dell’allora ministro Francesco De Lorenzo. Autori sono Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola.
In un corposo capitolo del volume vengono dettagliate imprese altrettanto mirabolanti, quelle del gruppo Marcucci nel ricco settore degli emoderivati, capitanato dal padre-patriarca-padrone Guelfo, con il figlio Andrea in rampa di lancia sul fronte politico: è infatti il più giovane deputato in parlamento, fresco d’elezione nel 1991 sotto i vessilli del Pli di Renato Altissimo e dello stesso De Lorenzo.
L’inchiesta trentina vede sotto i riflettori le società che popolano l’“impero del sangue” griffato Marcucci, già all’epoca oligopolista in Italia.
Partito nel 1999 a Trento, il processo passerà poi a Napoli, dormendo per anni negli sgarrupati scantinati del centro direzionale, sede del tribunale. Prende il via – dopo colossali ritardi e solo 9 parti civili – nel 2016 e si conclude dopo tre anni esatti con un clamoroso “il fatto non sussiste”, sentenza pronunciata dalla sesta sezione penale del tribunale partenopeo. Tutti liberi come fringuelli e candidi come gigli gli imputati, tra i quali svariati funzionari delle aziende del gruppo Marcucci e il Re mida della Sanità ministeriale, Duilio Poggiolini.
Evidentemente “suicidi” tutti i morti per l’uso di emoderivati killer nella strage del sangue infetto: un totale non inferiore ai 5 mila, di sicuro calcolato per difetto (tanti non hanno avuto né i mezzi né la forza per intraprendere alcun percorso giudiziario).
Uccisi due volte.
DEPISTAGGI DI STATO
Ci sono altri gialli da novanta che Carlo Palermo ha seguito in qualità di avvocato delle parti civili.
Come la tragedia del Moby Prince, anche in questo caso una giustizia fino ad oggi calpestata, una memoria delle vittime oltraggiata; appena due mesi fa, dopo tanti anni, restituiti alcuni oggetti ai familiari delle vittime. Un processo altrettanto vergognoso, zeppo di depistaggi, di piste evidenti mai seguite.
Per non parlare del maxi depistaggio che caratterizza l’inchiesta per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che proprio il 4 aprile giunge ad un punto di svolta. Giorno in cui scadono i sei mesi di proroga delle indagini chiesti dal gip del tribunale di Roma Andrea Fanelli, dopo ben due richieste di archiviazione avanzate dal pm Elisabetta Ceniccola e controfirmate dall’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone.
Carlo Palermo affianca gli avvocati Domenico e Giovanni D’Amati per i familiari rimasti in vita di Ilaria, dopo la morte del padre e della madre che non hanno potuto vedere uno straccio di giustizia.
Ora il gip Fanelli si deve pronunciare: o archiviazione tombale, e giustizia affossata.
Oppure continuare nelle indagini e arrivare finalmente ad un processo.
Che possa mandare in galera, una buona volta, esecutori, mandanti & depistatori: soprattutto dopo che tre anni fa la sentenza del tribunale di Perugia – con la quale è stato scagionato il somalo per 16 anni in galera da innocente – ha aperto la strada giusta.
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