La giustizia. Quella vera, autentica, non sbandierata nelle aule di tribunale a mo’ di ennesima beffa. Né quella sommaria spesso e volentieri stabilita da servizi più o meno segreti, più o meno deviati.
E l’informazione. Quella vera, autentica, non macchine del fango o conta fake news, le bufale che razzolano troppo spesso nei campi mediatici; non le veline di Palazzo, di questa o quella porta di Servizio.
E’ questo il senso vero, autentico di un capolavoro come “Richard Gewell”, la trentanovesima pellicola griffata Clint Eastwood.
Imperdibile, da far vedere e gustare minuto per minuto a tutti i ragazzi nelle scuole.
Uno spaccato di story americana praticamente oscurato dai media di casa nostra, la bomba alle Olimpiadi di Atlanta, la vicenda dell’eroe per caso che amava la legge e perfino i suoi presunti difensori, in prima fila i poliziotti, tanto da sognare ogni giorno di diventarne uno.
L’eroe salvatutti (per quella bomba ci furono ‘solo’ due morti e un centinaio di feriti) che in poche ore si tramuta nel mostro da sbattere in prima pagina per via della soffiata di un FBI a una cacciatrice di scoop e di scopate facili.
Gli 89 giorni d’inferno che l’eroe-mostro Richard Jewell, un simpatico ciccione complessato, e la mamma sono costretti a vivere per sfuggire ai segugi dei servizi a stelle e strisce e ai paparazzi da strapazzo.
Solo un amico avvocato gli è al fianco, un giovane legale in calzoncini corti nel cui studiolo alle spalle c’è una scritta, non Ognuno è uguale davanti alla leggema Stai attento allo Stato, può essere più pericoloso di un terrorista.
Solo dopo tre mesi di puro inferno in terra, una vita girata come un calzino e stravolta, Richard viene scagionato da ogni accusa. Il castello di accuse farlocche si scioglie come neve al sole, nessun elemento, zero su zero, eppure passato sulla graticola come in un lager nazi dalla tanto democratica America dello zio Tom.
Se la potrà godere per poco, quella libertà a stelle e strisce, il povero Richard, che dopo pochi anni, a soli 43, va all’altro mondo, certo più ospitale con lui di questo.
Una storia vera, tassello per tassello, che nelle mani di Eastwood diventa un dipinto perfetto, miniature i personaggi pennellati con semplice ed epica maestria. Solo per Kate Bates – la madre – c’è la candidatura all’Oscar, quando lo avrebbero meritato tutti i singoli interpreti, a partire dal paffuto Richard alla rampante scooppista.
E a cominciare da Clint, al quale va – a prescindere da qualunque altro film possa mai essere in lizza – l’Oscar di anticipato diritto. Senza se e senza ma.
Il perfetto quadro dell’America opulenta e tronfia, il sogno yankee della festa a tutti i costi, il dream inseguito macinando storie e persone, gli ultimi i penultimi e i terzultimi da sbattere in prima fila, da usare triturare e poi sputare in una discarica, maciullando vite e diritti.
Se alla fine la giustizia vince non è grazie al Sistema, ma nonostante quel Sistema, alla faccia di quel Sistema maledetto. Dopo montagne da scalare, grazie al singolo che non si arrende, il Richard costretto a spremer energie dal suo carattere mite, l’avvocato in calzoncini e barba non rasata, la mamma premurosa scippata dalla prima all’ultima pentola, dal primo all’ultimo dei diritti più elementari.
Gli eroi dell’altra America, quella che sognava Marthin Luther King, quella sfasciata dai dai Bush, dai Clinton e dai Trump di turno.
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