METODO DI BELLA / 20 ANNI FA, CONTRO IL POTERE DI BIG PHARMA

La copertina della Voce di febbraio 1998

Oltre vent’anni fa scoppiava il caso Di Bella, ossia il metodo anticancro studiato da un medico di vecchio stampo, geniale, scrupoloso e riservato, Luigi Di Bella.

Fu ovviamente linciato, soprattutto sotto il profilo mediatico, proprio perché osò, all’epoca, lottare contro i colossi farmaceutici, Big Pharma, solo contro tutti, Davide contro Golia.

La Voce scrisse alcune inchieste, in particolare una cover story a febbraio 1998. Dove cercavamo di dettagliare quanto il metodo Di Bella potesse dar fastidio a quella medicina ufficiale che vedeva nel cancro e del dolore una inesauribile fonte di danari. Guai a tutti quelli che cercano di curare in modo umano, scientificamente valido (nonostante i pareri dei soloni), senza svenare pazienti e famiglie!

E così Di Bella finì prima sulla graticola, poi in naftalina. Anche se ancor oggi lavorano in Italia non pochi medici che si rifanno alle sue teorie e ai suoi metodi terapeutici.

Abbiamo ricevuto da un lettore un lungo intervento che parte dal libro scritto nel 2012 da Adolfo Di Bella, intitolato “Il poeta della scienza – Vita del professor Luigi Di Bella”: ricordi, documenti, narrazioni, ricostruzioni ed anche un epistolario, come ad esempio attesta lo scambio di lettere con Guglielmo Marconi.

Ecco, di seguito, l’intervento di Luca Iezzi.

(nella foto Luigi Di Bella)

 

IL POETA DELLA SCIENZA – Vita del professore Luigi Di Bella

Il volume, minuziosamente documentato e ricco di indicazioni delle fonti, dipana la

complessa figura del Prof. Luigi Di Bella esaminandola sotto il profilo scientifico,

morale, intellettuale e umano. Difficile non giungere alla conclusione che sono state

proprio queste qualità e virtù a procurargli, per buona parte della vita, un’ostilità

incessante che non di rado si è fatta autentica persecuzione. Il lettore rimane, oltre

che indignato e amareggiato, anche stupefatto per la capacità dell’uomo di non farsi

annichilire da un’opposizione tanto indiscriminata e violenta e di riuscire a compiere

egualmente la sua opera.

Luigi Di Bella, siciliano, classe 1912, era nato in una famiglia numerosa e di assai

disagiate condizioni economiche, non in grado quindi di sostenere le spese per fare

studiare quel ragazzo, nonostante avesse precocemente dimostrato rare doti

d’ingegno e di forza di volontà. Luigi sopportò sacrifici di ogni genere per soddisfare la

sua sete di sapere e superare le ristrettezze della povertà, arrivando anche a studiare

la sera in piedi, sotto la luce del lampione della strada, per sopperire alla penuria di

petrolio per la lampada.

Fornisce ben presto le prove di un ingegno straordinario: avendo frequentato le scuole

complementari che, non contemplando l’insegnamento del latino, non consentivano

l’accesso al liceo scientifico, in due mesi apprende il latino, lasciando increduli i

commissari durante la prova di idoneità prescritta. Per rendersi economicamente

indipendente ed aiutare i fratelli, parteciperà anche ai concorsi nazionali riservati agli

studenti poveri e meritevoli, vincendo tutti quelli che affronta.

Divenuto studente della facoltà di medicina a Messina, la sua abitudine di studiare

oltre che sui libri di testo anche su ponderose ed ostiche monografie (oltre ovviamente

alle sue rare capacità di assimilazione), gli procura un ”pubblico” di docenti

universitari che corrono ad assistere ai suoi esami. Viene notato dal prof. Pietro Tullio,

considerato il più autorevole fisiologo del tempo – due volte candidato al Nobel per la

medicina nel 1930 e nel 1932 (1) – che gli propone di diventare allievo interno presso

l’Istituto di Fisiologia. Attraverso il suo maestro, Luigi Di Bella si forma nell’ambito di

quella scuola medica che il mondo ci invidiava, annoverando luminari come Augusto

Murri e Pietro Albertoni, considerati i più grandi medici dei tempi moderni. Non

potendo soffermarci troppo su queste due figure di medici e professori universitari, ci

limitiamo a riferire che raggiungevano percentuali elevatissime di diagnosi esatte,

92% Murri e 98% Albertoni (2), in un’epoca nella quale gli esami ematochimici erano

ben più rudimentali di quelli odierni, e non esistevano TAC e risonanze magnetiche. A

quel tempo l’insegnamento e la ricerca nell’ambito della medicina non erano disgiunti

dalla pratica clinica, l’eccessiva specializzazione non aveva ancora contaminato ogni

settore, e la fisiologia era ancora considerata la materia cardine di tutto il sapere

medico, non essendo altrimenti possibile comprendere ed applicare razionalmente

tutte le altre. Questo consentiva il raggiungimento di livelli di eccellenza diagnostica

attualmente inarrivabili.

Se pensiamo ai pazienti che oggi sono costretti a peregrinare tra specialisti e ospedali,

spesso orfani di diagnosi – e quindi di efficace terapia – nonostante l’elefantiasi di

esami di ogni genere, non si può rimanere che sconcertati.

Luigi Di Bella è stato senza dubbio l’epigono di quella mentalità e cultura medicoscientifica

che ha annoverato eccellenze quali Antonio Cardarelli, Pietro Lussana,

Giuseppe Moscati, oltre che i luminari prima citati. E’ a quest’ultimo, il medico santo di

Napoli, che Luigi Di Bella più si avvicina, oltre che per mentalità clinica, per umanità e

condotta di vita cristiana.

Il primo lavoro scientifico che riporta il nome di Luigi Di Bella (oltre ovviamente a

quello del maestro) risale all’inizio del 1932, quando è ancora diciannovenne e

studente del secondo anno di università. Lo stesso Tullio, qualche anno dopo,

dichiarerà in un attestato di essersi limitato a curarne la bibliografia. Nel luglio 1936 si

laurea in medicina con 110 e lode, dopo aver sostenuto 12 esami in più rispetto a

quelli regolamentari.

Subito dopo la laurea riceve una proposta di assunzione da parte di Guglielmo Marconi

– allora presidente del CNR – perché continui le ricerche in campo chimico che gli

erano valse l’ultimo premio nazionale (è ancora disponibile il carteggio intercorso).

Luigi Di Bella declina l’invito, dichiarando che desidera continuare le sue ricerche

nell’ambito della medicina. Riceverà dal grande fisico una borsa di studio.

Quando nel 1938 consegue le lauree in Farmacia ed in Chimica, già da due anni, dopo

avere superato brillantemente il previsto concorso, è incaricato dell’insegnamento

della Fisiologia e della Chimica Organica presso l’Università di Parma. Durante questo

periodo pubblica un libro di chimica organica.

Il 3 settembre 1939 sposa Francesca Costa, e prende servizio nel ruolo di aiuto

incaricato presso l’Università di Modena, città nella quale si trasferisce con la famiglia.

Dall’unione nasceranno Giuseppe (maggio 1941) che intraprenderà anche lui la

professione di medico, e Adolfo (dicembre 1947).

Il 3 settembre 1941, con il grado di Capitano Medico, viene inviato in Grecia, dove

dirigerà due ospedali militari. Qui si sottopone ad ogni sacrificio pur di aiutare i malati,

arrivando a donare loro il suo pasto da ufficiale ed a dormire in piedi, appoggiato ad

una colonna, per poter accorrere più velocemente alle richieste d’aiuto. Raccontando

anni dopo questi particolari, si limiterà a commentare: “Dopo un po’ ci si abitua”. Alla

fine, le immani fatiche sostenute presenteranno il conto: la salute degrada sempre più

e all’inizio del 1943 rientra in Italia per una breve licenza. Le condizioni però

peggiorano ulteriormente e viene ricoverato all’ospedale militare di Bologna per

epatite, anemia e malaria. Posto in “licenza speciale in attesa di trattamento di

quiescenza”, si riprende gradualmente e riesce ad iniziare l’insegnamento per l’anno

accademico 1943-44. A seguito dei bombardamenti alleati su Modena della prima

metà del 1944, la famiglia Di Bella trova ospitalità in una casa colonica a Bastiglia,

paese ad una dozzina di chilometri dalla città. Anche qui non sta con le mani in mano:

visita gli abitanti dei dintorni che hanno bisogno e, nonostante i pericoli, si reca

quotidianamente all’università in bicicletta.

Nell’immediato dopoguerra iniziano a delinearsi le prime ricerche che lo porteranno

anni dopo all’ideazione del suo metodo di cura per i tumori. In questo periodo si

scatena una persecuzione durissima da parte dell’ambiente accademico, quantomeno

nella facoltà di medicina, che non gli perdona limpidezza morale, superiorità

d’intelletto e di cultura che lo caratterizzano. Gli studenti al contrario lo idolatrano,

affollando le sue lezioni, a tal punto che durante l’occupazione studentesca del 1968

Luigi Di Bella sarà l’unico professore che gli studenti autorizzeranno ad entrare

nell’università per svolgere le lezioni.

Inizia a diffondersi anche la sua fama di medico capace di fare diagnosi di

un’esattezza inarrivabile, e di risolvere situazioni ritenute senza speranza dai medici

più blasonati. Anche questo contribuirà ad alimentare quelle invidie e quella

persecuzione che non gli daranno tregua fino all’ultimo dei suoi giorni. Dirà un giorno:

A questo mondo, è rigorosamente proibito fare del bene”. I malati, che per tutta la

vita visiterà gratis arrivando a regalare loro le medicine, giungono sempre più

numerosi, grazie al “meccanismo di passaparola”. Spesso sarà costretto a visitarli la

sera – già sfinito da una intera giornata di lavoro – o la domenica presso la propria

abitazione. Intervistato nel 1998 per la RAI da Don Giovanni D’Ercole, alla domanda

“Ma lei non si fa pagare?” risponderà: “No, mi ripugna: uno viene qui perché ha

bisogno, e io dovrei guadagnare sul bisogno di un altro?” (3)

Inflessibile con se stesso, fa dell’umiltà e dell’autocritica una regola di vita,

chiedendosi sempre se ha davvero fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità ed il

proprio dovere di medico e di uomo (3). Così come il denaro, anche il lusso gli

ripugna: “La povertà e l’essenzialità sono più vicine alla realtà di tutto. Il lusso per me

è una sovrapposizione all’essenziale, e quindi il mezzo migliore per deviare dalla retta

via……la rinuncia è la dote essenziale di un uomo per progredire e per realizzare.

Bisogna saper rinunciare a tutto quello che non è essenziale” (3). Quando, decenni

dopo, durante una intervista gli verrà chiesto come ha fatto a trovare la cura per il

cancro senza avere dietro un’università o un centro di ricerca iperfinanziato,

risponderà: “In una maniera semplice: rinunciando a tutto quello che non è necessario

per vivere. In questa maniera le spese le ho ridotte al minimo, e tutto quello che

potevo risparmiare l’ho dedicato alla ricerca” (4).

I “baroni” dell’università di Modena lo relegano in un’angusta stanzetta dell’istituto di

Fisiologia e gli impediscono, di fatto, di compiere ricerche, negandogli i fondi

accademici a cui avrebbe diritto ad accedere. Lo scienziato sarà per questo costretto

ad indebitarsi per costruirsi un suo laboratorio privato che, una volta portato a

termine nel 1952, gli consentirà di proseguire la sua attività di ricercatore. Intensifica

anche la partecipazione a congressi medici e scientifici in Italia e all’estero, mentre

continua a pubblicare i risultati delle sue ricerche. Al termine della sua vita, si

conteranno 215 pubblicazioni e un centinaio di comunicazioni in congressi.

Al rigore scientifico unisce sempre la sensibilità per il bello. Per lui queste due

dimensioni sono inscindibili. Non c’è solo la bellezza delle arti figurative e della

musica, che ama profondamente, ma anche l’infinita bellezza del Creato e degli intimi

meccanismi che rendono possibile la vita. Ogni volta che, da ricercatore qual è, riesce

a far luce su qualcuno di questi meccanismi, prova un profondo rapimento spirituale

per la bellezza e la perfezione che vi intravede. In altre parole, è la meraviglia e lo

stupore di chi giunge a scorgere quella particella di eternità che l’uomo incorpora in

sé.

Soltanto un poeta della scienza può arrivare a dire: “Un medico può considerarsi tale

solo se ama l’ammalato ed è affascinato dall’ignoto, se cerca di far luce sui misteri del

Creato e di confrontarsi con questi”. E agli ammalati dona tutto se stesso, prendendo

parte alle loro sofferenze: “Lei non immagina la sofferenza che mi viene ad ascoltare

le sofferenze del prossimo, ad essere incapace di togliere queste sofferenze, almeno

subito” (3). Quando visita, veste i panni di sacerdote in camice bianco. Molti pazienti

avvertono istintivamente il bisogno di confidargli le loro pene interiori o i loro problemi

familiari, e non pochi escono dalla visita letteralmente sconvolti nell’anima. Riportiamo

per brevità solo un paio di esempi. Una signora, afflitta nel corpo e nello spirito,

afferma: “E’ come se mi avessero messo una telecamera dentro al cuore e all’anima.

Ha letto in me cose che non sa e non capisce nessun altro, e addirittura mi ha

spiegato cose di me stessa che non riuscivo a comprendere. Un’esperienza

sconvolgente che non dimenticherò finché avrò vita”. Un’altra, arrivata in uno stato di

prostrazione profonda, esce trasformata: “Mi ha ridato la voglia di vivere. Non me ne

frega niente se mi salvo o se muoio tra un mese o una settimana….Avere conosciuto

un uomo così vale la vita. Sono serena”.

Nel 1963 Maria Teresa Rossi, una sua studentessa, gli si avvicina al termine di una

lezione per chiedergli un consiglio sulla grave malattia che la affligge, il lupus

eritematosus, a causa del quale i medici le hanno prospettato al massimo due anni di

vita. Lo scienziato la visita e le prescrive una terapia. La ragazza, da tutti chiamata

Deda, ne ricava presto netti benefici e in pochi anni diventerà una valida collaboratrice

nelle ricerche del professore, il quale arriverà ad amarla come una figlia. E i due anni

di vita residua, grazie a Luigi Di Bella, diventeranno ventiquattro.

Dopo un complesso e faticoso iter sperimentale, il 6 dicembre 1973, invitato a tenere

una conferenza presso la sede della Società Medico Chirurgica di Bologna dal Prof.

Domenico Campanacci, il più illustre clinico italiano del dopoguerra, presenta il

razionale e i primi risultati clinici della metodologia messa a punto per patologie

ematologiche (successivamente perfezionata ed estesa ai tumori solidi). Riceve

l’appoggio e la considerazione, oltre che del Prof. Domenico Campanacci, dell’illustre

ematologo Edoardo Storti, del fisiologo Giuseppe Moruzzi, e di Emilio Trabucchi,

famoso farmacologo. Ma neanche costoro, dall’alto della loro autorevolezza, possono

vincere il montante potere delle aziende farmaceutiche e l’ostilità di un’oncoematologia

che, invece di offrire collaborazione, si sente scavalcata e surclassata da

quello scienziato che aveva osato dare concrete possibilità di salvezza a malati

altrimenti condannati. Vale ricordare che nel 1973 si conoscevano solo 500 casi di

leucemia in tutto il mondo sopravvissuti per più di 5 anni. Gli unici interessamenti

genuini gli arrivano dall’estero: medici ed istituzioni ospedaliere di ogni parte del

mondo lo contattano e si informano sui princìpi della sua cura. Il numero dei pazienti

che accorrono da lui, grazie anche alle testimonianze dei malati curati e ad alcuni

articoli pubblicati su diversi periodici, aumenta fino a livelli insostenibili. Anche perché

non cura solo i tumori: la sua impostazione squisitamente fisiologica della medicina,

unita ad un raro ingegno ed alla conoscenza profonda di tutte le branche della scienza

medica, gli consentono di curare con successo diverse patologie, specialmente

neurologiche e neuromotorie.

Vale la pena soffermarsi brevemente sul valore delle ricerche che lo hanno condotto a

formulare il suo Metodo di cura dei tumori. Già nel 1969 aveva relazionato (Alghero,

congresso della Società Italiana di Biologia Sperimentale) sugli esperimenti con cui

aveva dimostrato l’influenza del sistema nervoso centrale sulla crasi ematica (si

trattava della stimolazione, nei ratti, di una determinata zona del cervello vicina alla

ghiandola pineale, che portava a forti aumenti delle piastrine in circolo). Fino a quel

momento nessuno aveva intuito che il sangue, e quindi le concentrazioni delle sue

componenti, potessero essere influenzate e determinate a livello cerebrale. Già solo

tale scoperta, che porterà lo scienziato ad introdurre la melatonina (prodotta

principalmente dalla ghiandola pineale) come uno dei cardini della sua cura, avrebbe

meritato, come osservarono alcuni studiosi, il premio Nobel per la Medicina.

L’estensione della cura ai tumori solidi risale alla metà degli anni ’70, quando nel suo

Metodo introduce la somatostatina. E’ il primo al mondo a proporre l’uso di questa

sostanza per le patologie tumorali. Ancora oggi il suo impiego terapeutico in oncologia

è limitato ai soli tumori neuroendocrini, nonostante migliaia di pubblicazioni, tra le

quali quelle di premi Nobel come V. Schally (5), che ne dimostrano l’efficacia in

un’amplissima varietà di patologie neoplastiche.

Nel frattempo, già un anno dopo la presentazione della sua cura, era stato vittima,

mentre era nell’istituto di Fisiologia, di un tentativo di avvelenamento da cui riuscì a

salvarsi intuendo la causa dei gravi sintomi che avvertiva e prendendo le opportune

contromisure.

Poco tempo dopo subirà diversi inspiegabili incidenti per le strade di Modena, mentre

era in sella alla sua inseparabile bicicletta. L’ultimo attentato avverrà nel 1996

mentre, ormai ottantaquattrenne, si reca in bici al suo laboratorio per visitare i malati:

colpito alle spalle con un sacco di sabbia, finirà a terra e si risveglierà in ospedale con

un trauma cranico, una commozione cerebrale e la compromissione dell’udito ad un

orecchio. Nonostante ciò, appena riavutosi ha un’unica preoccupazione: chiede di

essere dimesso, si fa accompagnare in laboratorio e, con ancora le bende macchiate di

sangue, inizia a visitare i malati che lo attendevano all’ingresso.

Intervistato negli anni ’90 da un canale televisivo, lascia a bocca aperta la giornalista

che gli chiedeva, viste le mille difficoltà attuali e quelle incontrate nella sua vita, quali

fossero le sue gratificazioni: “Non ho bisogno di gratificazioni. Sono arrivato ad una

semplice morale che a volte meraviglia anche i miei figli: ringrazio il Padreterno per la

sofferenza che m’ha dato, perché attraverso la sofferenza ho imparato cos’è la vita

(6).

La famigerata sperimentazione del 1998 richiederebbe una trattazione troppo lunga.

Quello che è importante sottolineare è che non fu Luigi Di Bella a chiederla, ritenendo

egli che l’ampia letteratura scientifica disponibile e la casistica raccolta avrebbero da

tempo dovuto consentirne l’adozione. Il Ministero dalla Sanità preferì ignorare tali

pubblicazioni, decidendo di organizzare una sperimentazione che, per i presupposti di

partenza e poi per la sua conduzione, aveva l’esito già scritto. Basandosi

esclusivamente su documenti ufficiali (Rapporti Istisan 98/17 e 98/24), si rileva infatti

che condizione fondamentale per l’arruolamento fosse “essere non suscettibili, o non

più suscettibili di trattamento”: in parole semplici, dovevano essere malati tanto gravi

da far considerare inattuabile qualsiasi tentativo terapeutico (chirurgia, radioterapia,

ormonoterapia, chemioterapia). La sopravvivenza stimata dagli sperimentatori andava

da un minimo di 11 giorni (!) ad un massimo di 90. E’ un ben curioso criterio quello di

ritenere efficace una terapia solo se riesce a replicare il miracolo di Lazzaro, salvando

malati terminali e candidati all’assistenza domiciliare! Sempre sulla base della

documentazione ufficiale si rileva un altro inquietante “mistero”: ad onta della

reiterata affermazione che il Prof. Di Bella avesse accettato queste condizioni ostative,

non esiste un documento ufficiale che attesti dove e quando lo scienziato avrebbe

firmato i protocolli della sperimentazione; ed anzi risulta agli atti uno schema

autografo e da lui firmato il 31 gennaio 1998, totalmente incompatibile con gli schemi

terapeutici praticati.

L’esito così precostituito venne ulteriormente presidiato con numerose altre anomalie,

costituenti obiettivamente e autonomamente cause di invalidazione (7): 3-4 farmaci

previsti sui 10 del sopra richiamato schema autografo; interruzione del trattamento

nell’86% dei casi; galenici somministrati dopo la data di scadenza o resi tossici dalla

presenza di acetone (soluzione di retinoidi); somatostatina somministrata senza

indispensabile impiego di siringa temporizzata, ecc. Ma, a parte quanto sopra, la

demolizione della validità di questo studio fu fatta da uno scioccante Editoriale

comparso su quella che dai più è ritenuta la più autorevole rivista scientifica del

mondo (BRITISH MEDICAL JOURNAL – Marcus Mullner: “Di Bella’s therapy: the last

word?” – BMJ, 1999, 318, 208). L’editoriale, dopo alcune severe critiche (mancanza di

randomizzazione e di gruppo di controllo), conclude: “…è proprio il progetto scadente

di questo studio a non essere etico…..Il progetto di questa sperimentazione è

fallace..”.

Il vero miracolo (mai comunicato all’opinione pubblica) fu che, nonostante quanto

osservato, il 48% dei pazienti risultava in vita al termine della sperimentazione

(Rapporti Istisan: 167 pazienti in vita al 31 ottobre 1998 su 347 pazienti ‘valutabili’),

nonostante che la prognosi di massimo 90 giorni (la prova iniziò nel marzo 1998 e si

concluse il 31 ottobre dello stesso anno) facesse prevedere il decesso di tutti i 347

pazienti arruolati. Nel follow-up del giugno 1999 risultavano ancora in vita 88 arruolati

(25%).

Malgrado le amarezze, le perfidie subìte e le delusioni, Luigi Di Bella continuerà la sua

attività di medico fino al termine della sua vita, vincendo la stanchezza ed i crescenti

problemi di salute. A chi tenta di farlo desistere almeno dalle visite ai malati che si

presentano senza appuntamento, lui risponde con semplicità disarmante: “Se vengono

qui, è perché hanno bisogno”. Per tutta l’esistenza ha combattuto la “buona battaglia”

ed ai figli che, in uno dei momenti di maggiore ostilità e attacchi crescenti, gli avevano

chiesto se non fosse il caso di ritirarsi cercando di badare alla sua salute, aveva

risposto: “Non capite che io sono sempre stato un lottatore?” Lascerà questo mondo il

1° luglio 2003, a pochi giorni dal suo 91° compleanno. Qualche mese prima aveva

scritto: “Sono degno? Lo diranno gli altri. L’animo mi dice tuttavia che non sono

vissuto inutilmente, perché ho fatto del bene ed ho gioito per il bene fatto”.

Infine, qualche osservazione sul Metodo Di Bella: si tratta di una cura squisitamente

fisiologica, impostata cioè sui princìpi della fisiologia, la disciplina che studia il

funzionamento degli organismi viventi, dai fenomeni macroscopici fino ai più piccoli

legami molecolari. Per dirla in breve, è la scienza che studia la vita e i meccanismi con

cui essa si esprime. E’ una materia fondamentale e alla base di tutte le altre discipline

mediche, e non a caso, nel degrado voluto e pianificato della medicina attuale che va

di pari passo col degrado di tutta la civiltà, essa è stata ridotta e svilita nei programmi

universitari a tal punto che lo studente arriva a laurearsi in medicina capendone poco

o nulla. Il tumore, inoltre, è una malattia sistemica e multifattoriale, per cui non potrà

mai essere guarita da un unico rimedio. Non a caso, il metodo Di Bella comprende un

numero ben nutrito di diverse sostanze fisiologiche, farmaci e princìpi vitaminici, la cui

composizione è stata studiata per avere azione sinergica e fattoriale, per cui l’effetto

di ognuno è impressionato e potenziato dall’assunzione di tutti gli altri. Per ciascuna di

queste componenti sono comparsi negli anni un’infinità di studi sulle riviste

scientifiche (attualmente ammontano a qualche decina di migliaia) che ne dimostrano

l’efficacia antitumorale.

Un altro fatto significativo sono i circa 1000 casi documentati di efficacia del metodo

Di Bella pubblicati su riviste scientifiche accreditate e peer review, rintracciabili

agevolmente sul portale www.pubmed.gov . Tra le pubblicazioni più recenti, quelle sui

pazienti con tumore alla prostata e alla mammella, molti dei quali hanno avuto

remissione della malattia senza chirurgia, senza radioterapia e senza chemioterapia,

ma unicamente con il Metodo Di Bella. Si tratta peraltro di casi documentati nella

maniera più scrupolosa, con diagnosi e successivi accertamenti strumentali effettuati

in strutture pubbliche o private. Per comprendere l’eccezionalità della pubblicazione,

occorre evidenziare che in tutta la letteratura scientifica mondiale non esiste un solo

caso pubblicato di tumore solido guarito con qualsivoglia strumento farmacologico o

radiante. Considerando che circa 180.000 persone in Italia muoiono ogni anno a causa

di patologie tumorali, quante vite si sarebbero potute salvare se la sperimentazione

del 1998 fosse stata condotta in maniera corretta ?

Tanti altri aspetti del Metodo, della pseudo-sperimentazione e della vita dello

scienziato, oltre ad una ricca documentazione fotografica, sono riportati nel volume “Il

poeta della scienza” scritto da Adolfo Di Bella, che ha voluto affidare a questa

biografia una testimonianza unica: quella di una vita trascorsa accanto ad un genio e

benefattore dell’umanità.

Note:

(1) I dettagli delle candidature al Nobel del Prof. Pietro Tullio sono disponibili sul sito

ufficiale del prestigioso premio:

https://www.nobelprize.org/nomination/archive/show_people.php?id=9395

(2) Dal libro Si può guarire? La mia vita. Il mio metodo. La mia verità (Luigi Di Bella e

Bruno Vespa, ediz. Mondadori, 1998, pag.34)

(3) Intervista di Mons. Don Giovanni D’Ercole a Luigi Di Bella, trasmessa il 14 marzo

1998 su Raidue nel programma “Prossimo tuo”:

(4) Programma “Moby Dick” trasmesso il 6 novembre 1997 su Italia Uno e condotto

da Michele Santoro: https://www.youtube.com/watch?v=T65W48zYxPo

(5) Si veda ad esempio, tra i tanti lavori di Schally: Barabutis N, Siejka A, Schally AV.

Effects of growth hormone releasing hormone and its agonistic and antagonistic

analogs in cancer and non-cancerous cell lines. International Journal of Oncology 2010

May;36(5):1285-9. (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20372804)

(6) Intervista fatta a Luigi Di Bella nella primavera 1996:

(7) La sperimentazione del 1998 – motivi e prove della sua invalidità:

http://www.metododibella.org/la-sperimentazione-truffa-sul-metodo-di-bella.html .

Un’enorme mole di dati e documenti che demolisce completamente la sperimentazione

ministeriale è raccolta nel volume Un po’ di verità sulla terapia Di Bella (Vincenzo

Brancatisano, ediz. Travel Factory, 1999)


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