A luglio del 2001 la Voce incontra Bruno Contrada nella casa di Varcaturo del fratello Vittorio. L’ex capo del Sisde, che era appena stato assolto in appello, decise di raccontare alla Voce la dura verità sulla Palermo di quegli anni e su cosa stava diventando l’Italia. Profezia drammaticamente avveratasi.
Mentre infuria la polemica, dopo che poche ore fa la Cassazione ha definitivamente assolto Contrada recependo l’analogo provvedimento della CEDU, con gli accusatori di sempre Caselli e Ingroia ancora pronti a sparargli addosso, riproponiamo il testo integrale dell’intervista di luglio 2001: sia per il valore storico che ancor più oggi acquista, sia perché – come si legge dall’intervista – avevamo capito fin da allora che Contrada era innocente e che dopo di lui saremmo arrivati, appunto, alla repubblica dei pentiti. Non era ancora all’orizzonte un’altra repubblica: quella attuale, in cui a governare il Paese e a scrivere le regole (invece di limitarsi ad applicarle) sarebbero diventati loro: i magistrati come Ingroia.
Qui di seguito il testo dell’inchiesta Voce luglio 2001. A seguire il pdf e le pagine.
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ESCLUSIVO / I MISTERI DI PALERMO NEL RACCONTO DI BRUNO CONTRADA
LA REPUBBLICA DEI PENTITI
Carnevale, Andreotti, Mannino il caso Sindona, la massoneria. E ancora Giovanni Falcone, Leoluca Orlando, Caselli. L’Italia dei misteri e delle stragi filtrata attraverso il racconto di Bruno Contrada all’indomani della sua assoluzione in appello dall’accusa in concorso esterno in associazione mafiosa dopo trentacinque anni in prima linea nell’azione di contrasto alle cosche, prima come capo della Mobile di Palermo, poi ai vertici di quel Sisde che era giunto ad un passo dalla cattura del boss dei boss Bernardo Provenzano.
Un gigantesco equivoco. Destinato a lasciare sul campo morti e feriti, come in una guerra di mafia. Solo che, questa volta, gli artefici del massacro sono uomini di legge, alte personalità del parlamento e delle istituzioni.
Applicare alle strategie antimafia le regole del pentitismo, dopo il successo riportato nella lotta alle Brigate Rosse, sembrò a fine anni ottanta un passaggio quasi ovvio, scontato. Quel grimaldello si è rivoltato invece contro chi aveva provato ad usarlo e l’assurda illusione di trasformare le delazioni a pagamento in un formidabile strumento processuale ha dovuto fare i conti con una malavita organizzata ben più abile dello Stato nel manipolare false verità e testimonianze ad orologeria. Una battaglia condotta per anni sul filo dei nervi, a colpi di fango contro fango, un colossale magma entro cui sono annegate anche le poche o tante “verità” emerse negli anni del pentitismo di mafia.
Alcune fra le tante vittime di questo meccanismo infernale sono nel frattempo morte. Altre sono morte dentro. A qualcuna è rimasto un filo resistente di vita, aggrappato a sentimenti di rabbia mista ad orgoglio, ad un senso della giustizia che, nonostante tutto, è duro a sparire. E’ la prima sensazione che si prova incontrando l’ex 007 Bruno Contrada all’indomani della sentenza d’appello che, a inizio maggio, lo ha assolto dalle accuse di collusioni mafiose con la motivazione più ampia possibile (“il fatto non sussiste”), a distanza di quasi nove anni dal giorno del suo arresto (la vigilia di Natale del 1992), dopo 31 mesi di carcere preventivo ed una sentenza di condanna secca in primo grado.
Sta trascorrendo qualche giorno di riposo a Varcaturo, in un’oasi di verde messa su un paio d’anni fa dal fratello Vittorio. Napoletano del Vomero, studi classici al Sannazaro, Bruno coglie l’occasione per rivedere gli otto tra fratelli e sorelle, tutti rimasti a vivere a Napoli, e le decine di nipoti. Sotto la scorza di sbirro intuisci, quando è in mezzo a loro, il riaffiorare di antiche emozioni giovanili, una vena nascosta quasi sentimentale e, in qualche modo, disarmante.
Tornato da una guerra al massacro che non gli ha risparmiato colpi su colpi, come tutti i reduci ha una voglia di raccontare che gli esplode dentro, fa fatica a contenerla tutta. Anche perché non è ancora del tutto finita. Tra fine luglio e i primi di settembre verranno depositate le motivazioni del giudizio d’appello e la Procura potrebbe avanzare – come accade quasi di prassi – ricorso per Cassazione. Ma la lunga stagione di corvi e veleni sembra avviata alla fine ed anche la sentenza di assoluzione per l’ex ministro Calogero Mannino giunta proprio in queste ore (stessa imputazione di Contrada, concorso esterno in associazione mafiosa, ed analogo parterre di pentiti ad accusarlo, da Spatola a Buscetta) confermerebbe il fallimento di un sistema basato sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Crolla, per ora solo nella coscienza collettiva, quella perversa regola del codice sulla convergenza del molteplice grazie alla quale, anche in assenza di altri riscontri, i pentiti potevano confermarsi a vicenda: un teorema che valeva in aula solo per i collaboranti, mai per i testi addotti dalla difesa.
Sessantotto anni pesanti, quelli di Bruno Contrada. Mentre parliamo lo chiama più volte al cellulare lei, Adriana Del Vecchio, la moglie napoletana rimasta a Palermo coi figli per “paura di volare”, destinataria di un corposo epistolario dal carcere, riportato in buona parte nel libro L’Intrigo, scritto a inizio 2000 dall’amico di famiglia Enzo Battaglia e presentato qualche mese fa a Milano nel salotto letterario di Marcello Dell’Utri, ultimo imputato eccellente di concorso esterno in associazione mafiosa. Per la ristampa del volume Contrada ha voluto i galloni di uno Strega o di un Viareggio tutto particolare. “Questo libro – recita la fascetta in copertina – ha vinto il premio più importante: la sentenza di assoluzione della Corte d’Appello di Palermo”.
Assediato da telefonate di cronisti per un commento sull’assoluzione di Mannino, Contrada fa ricorso a tutto il suo regolamentare understatement, ma emozione e rabbia trapelano qua e là, come nel corso della esclusiva intervista rilasciata alla Voce. Una lunga volata sugli angoli più oscuri della nostra storia recente che Contrada, profondo conoscitore di quei fatti, accetta di intraprendere con noi.
I RAPPORTI MAFIA-POLITICA
“Per Mannino – esordisce – è accaduto qualcosa di simile al mio caso giudiziario: un’accusa basata solo su dichiarazioni di pentiti, non sufficiente a provare il reato”.
Per lei c’era stata in primo grado una condanna, poi annullata in appello con la motivazione che “il fatto non sussiste”. Fino a che punto può influire su vicende giudiziarie come la sua o come quella di Mannino il clima politico, oggi ben diverso da allora?
Mi auguro che il clima politico non debba mai avere influenza su fatti di giustizia. Sarebbe assai triste doversi trovare in un Paese dove il corso dei casi giudiziari può mutare in relazione al cambiamento della classe di governo. Nonostante tutto continuo a credere e a sperare che questo non possa accadere.
Comunque la sentenza Mannino, ma anche quelle che hanno mandato assolti l’ex premier Giulio Andreotti e l’ex presidente della Provincia di Palermo Francesco Musotto, starebbero a dimostrare che il teorema accusatorio sulle collusioni fra Dc e mafia fosse sostanzialmente basato su castelli di carta.
E’ stato un grave errore considerare che potesse esistere un collegamento organico tra le formazioni politiche e l’organizzazione di Cosa Nostra. Ciò non esclude che singoli personaggi di diversi partiti, e non solo della Dc o del Psi, intrattenessero rapporti anomali con taluni mafiosi. Non esisteva, insomma, un sistema organico di collusioni, ma rapporti personali finalizzati alla protezione reciproca, ai favori.
Ed anche a massicci appoggi politici nelle campagne elettorali…
Appoggi sì, ma sempre relativi… Non è che i mafiosi avessero questa grande capacità di convogliare voti su taluni candidati… Sì, lo facevano anche, ma il coinvolgimento riguardava più che altro le loro stesse famiglie, ampie e allargate quanto si vuole, ma non certo in grado, sul piano numerico, di determinare un’elezione.
Di sicuro, però, orientavano consensi verso la Dc, cercando di contrastare in ogni modo l’avanzata della sinistra, soprattutto dell’allora Pci.
Anche questo va chiarito. I mafiosi si sono sempre appoggiati verso il potere, perché solo da quella parte trovano la loro convenienza, non certo all’opposizione. Lo diceva già il prefetto Mori a fine anni venti: il mafioso è come una baldracca che si struscia addosso all’uomo potente, in grado di darle qualcosa.
Numerosi esperti, soprattutto camorrologi, hanno descritto il rapporto politica-crimine organizzato come un sistema in cui le mafie scelgono i propri referenti, che diventeranno poi autentici “terminali” delle attività illecite nei diversi assetti istituzionali, dai comuni fino al parlamento.
No, no, la mafia gli uomini politici non li “crea”: li trova, li corrompe e li appoggia, li aiuta a rinforzarsi. In cambio ottiene tutto ciò che quel politico può dare, a seconda del suo livello istituzionale, dalla licenza per venditore ambulante, se è un assessore all’annona, fino agli appalti, alle grandi concessioni edilizie, alle modifiche dei piani regolatori.
Il modello Ciancimino, dunque.
La condanna di Vito Ciancimino è di dominio pubblico, non la scopro io. E si tratta di una sentenza passata in giudicato. I suoi rapporti con la mafia risalgono al periodo in cui ricopriva importanti cariche al comune di Palermo, è stato assessore all’edilizia, alle acque, alle municipalizzate, all’annona. Settori strategici, fra i più sensibili alle pressioni mafiose.
Accuse analoghe a quelle rivolte per anni al braccio destro di Andreotti, Salvo Lima.
Reputo Giulio Andreotti un grande statista. Quanto a Lima, è stato una personalità che ha caratterizzato per tutti gli anni ottanta la vita politica ed amministrativa siciliana, fino a quando il suo potere è stato incrinato da attacchi provenienti dalla Rete di Leoluca Orlando.
Quindi, secondo lei, Lima fu una vittima?
Chiunque abbia ricoperto per lungo tempo a Palermo o in Sicilia cariche pubbliche importanti ha dovuto fare i conti con la mafia. Talvolta subendo, talvolta traendone vantaggio. Vittima o connivente, di volta in volta. Di certo, però, il processo per l’omicidio di Salvo Lima si è trasformato nel processo a Salvo Lima.
Come legge oggi la sconfitta elettorale di Leoluca Orlando?
E’ stato rilevato che i tre candidati alla presidenza della Regione Sicilia, Orlando, D’Antoni e il vincitore Totò Cuffaro, erano tutti provenienti dalle fila della Democrazia Cristiana. Orlando non l’ho frequentato ma l’ho conosciuto, come ho conosciuto tutti i grossi politici palermitani. La sua sconfitta rientra in tutto il movimento filo Berlusconi che c’è stato in Sicilia, è una conseguenza del 13 maggio.
Che giudizio dà del lungo periodo in cui Orlando è stato sindaco?
Ha saputo ben utilizzare a vantaggio della sua immagine e della Rete quel moto che era spontaneo in tutta la Sicilia, e soprattutto a Palermo, di contrasto attivo alla mafia, che aveva raggiunto livelli non più sopportabili. Si è avvantaggiato di un clima diverso e particolare di quegli anni, un’onda emotiva poi andata esaurita. Sarebbe sbagliato pensare che quel che ha fatto Orlando non potesse farlo nessun altro, ma indubbiamente per migliorare la vivibilità a Palermo qualcosa è stato fatto. Vedremo ora chi sarà il nuovo sindaco e cosa saprà fare.
Il clima in cui maturò la nascita della Rete ebbe il suo tremendo incipit nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Quali furono le vere ragioni di quei massacri?
Falcone e Borsellino andavano di pari passo, non esisteva contrasto, fra loro, nelle strategie da adottare nella lotta alla criminalità. Fu Giovanni Falcone ad introdurre e in qualche modo ad istituzionalizzare l’uso dei pentiti. In qualche modo, è caduto anche per questo, la mafia gli ha fatto pagare il fatto di aver “truccato” le regole del gioco. Nel contrasto tradizionale alle cosche, che io ho portato avanti per ben 35 anni, facevamo ricorso anche noi a fonti confidenziali, le pagavamo per ottenere notizie utili alle indagini. Ma questo era ben diverso dall’utilizzare le dichiarazioni dei pentiti come prova, elargire a loro ed alle loro famiglie sistemi di protezione miliardari, farli diventare dei professionisti del pentimento. E poi strumentalizzarne le dichiarazioni, e soprattutto, orientarle. Far capire al pentito con domande insistenti quello che si voleva sentir dire da loro. Io per esempio non ho mai avuto il sospetto che la mafia volesse uccidermi, nonostante le notizie circolate in un certo periodo, perché rispettavo un codice di comportamento non scritto: un gioco delle parti duro, ma senza inquinamenti di alcun tipo. E questo “loro” lo rispettano. L’aver sovvertito queste regole, l’inizio del pentitismo portato avanti da uomini come Luciano Violante, ha segnato poi l’inizio di un cambiamento netto anche sul piano politico. Il giustizialismo si è sostituito al garantismo, valore tradizionale della sinistra.
Cosa vuole dire? Che la giustizia, da Palermo a Milano, è stata utilizzata per far emergere e governare il centro sinistra?
Le cause del mutamento di regime, dello scardinamento del sistema politico, furono in realtà più profonde. Certo, uno degli strumenti sono stati secondo me i pentiti. Ma alla base di tutto c’è stata tangentopoli. Io penso sempre che, come il fascismo cadde nel ’43 non per una forza d’urto esterna, ma per un afflosciamento dall’interno, così anche il sistema della prima repubblica sia letteralmente imploso. Poi hanno fatto la loro parte anche tangentopoli, la magistratura di Milano, l’attività dei magistrati al Sud e a Palermo in particolare. Le inchieste sulla classe politica di vertice, tuttavia, andarono a colpire un sistema che si era già esaurito di per sé.
FALCONE E BORSELLINO
Restiamo su Giovanni Falcone. Come giudica la frase pronunciata nei giorni scorsi da Corrado Carnevale, che lo definisce tout court “un cretino”?
Non ho letto queste ultime dichiarazioni, peraltro seguite ad una sentenza di condanna in appello di Carnevale che ritengo scandalosa, anche perché uno dei giudici che lo ha condannato era stato pubblico ministero in un altro processo a suo carico. Tuttavia ricordo che l’ex giudice di Cassazione aveva usato un’espressione del genere su Falcone molto tempo fa. E lo trovo esagerato. Si può non essere d’accordo sul modo che aveva Falcone di perseguire la mafia o di gestire i pentiti, ma un giudizio così netto è fuori posto.
Perché Falcone accettò la proposta di Martelli ed andò a Roma a dirigere gli Affari penali?
Probabilmente pensò di poter continuare da lì il contrasto al crimine attraverso strumenti legislativi, ma soprattutto pesò in quella decisione il fatto che gli fu preferito, per la carica di capo Ufficio istruzione di Palermo, il più anziano e più esperto giudice Antonino Meli, senza contare la svanita aspirazione al posto di Procuratore nazionale antimafia.
Ritiene che i processi abbiano fatto piena luce sugli omicidi Falcone e Borsellino?
Penso che vi siano ancora lati oscuri da chiarire, l’inchiesta giudiziaria non ha fatto luce su alcuni aspetti, benché siano stati individuati mandanti ed esecutori materiali. Ed infatti esistono ancora indagini in corso. In questi delitti resta sempre un cono d’ombra.
LA GLOBALIZZAZIONE MAFIOSA
Tra gli imputati c’era Pippo Calò, che faceva parte della banda della Magliana ed era anche coinvolto in gravi fatti di camorra. Ma quali sono i veri rapporti tra le diverse organizzazioni criminali, in particolare fra Cosa Nostra e i clan della Campania?
Di camorra non mi sono mai occupato direttamente, ma è noto che i rapporti partono dagli anni ’60 col contrabbando di sigarette. Personaggi come Zaza e Nuvoletta erano in stretto collegamento coi mafiosi, ma non hanno mai fatto parte della cosiddetta “Commissione”. Poi in anni successivi gli interessi si sono fatti più grossi coi traffici di stupefacenti. Calò, comunque, non faceva parte della banda della Magliana, ma con essa aveva rapporti nell’ambito di una globalizzazione ante litteram realizzata fra le organizzazioni criminali. Una rete di collegamenti che si contrappone all’analogo raccordo esistente tra le Questure delle diverse città italiane.
Che ruolo ebbe in tutto questo un personaggio come Sindona?
Non può essere considerato in senso stretto un esponente della mafia, ma in un momento particolare della sua esistenza ebbe uno stretto rapporto con le cosche siculo-americane, che gestirono il suo finto sequestro e lo fecero ritrovare in Sicilia.
Chi fu a servirgli il caffè al veleno?
Non sono in grado di dirlo, addirittura le inchieste non hanno mai chiarito se si trattò di un omicidio o di un suicidio…
C’erano altri personaggi molto vicini alla mafia, nelle logge massoniche sicule?
La vera massoneria deviata è stata la P2 e non mi risulta che negli elenchi ritrovati a Castiglion Fibocchi ci fossero altri personaggi in odor di mafia come Sindona. Ciò non esclude che in qualche loggia siciliana riservata o segreta ci possa essere o essere stato qualche soggetto mafioso.
Nella P2 c’era però Silvio Berlusconi. E ancora oggi uno dei suoi bracci destri, Marcello Dell’Utri, è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Bisogna interpretarli bene, questi presunti rapporti tra la mafia e Dell’Utri, tenendo presente il contesto umano e sociale che esiste a Palermo. La mafia non è una banda di briganti che vive sulle montagne avulsa dalla società civile; al contrario, è la stessa società civile ad essere permeata da codici, comportamenti ed infiltrazioni mafiose. Puoi avere rapporti con persone che si riveleranno poi appartenenti alle cosche, ma senza neanche saperlo. E le frequentazioni tra Mangano e Dell’Utri risalgono ad anni giovanili. Perché Mangano fu mandato ad Arcore come stalliere? Non certo per proteggere Berlusconi, avrebbero avuto ben altri modi per farlo…
Si era parlato di massoneria anche in relazione a Rosario Riccobono, il criminale con cui, secondo i pentiti che la accusavano, lei sarebbe stato colluso.
Fra tutti i mafiosi Riccobono è stato quello che ho sempre perseguito con maggior impegno, anche perché aveva ucciso un giovane agente di vent’anni che amavo quasi come un figlio.
IL PROCESSO CONTRADA
Ci fu un complotto ai suoi danni? Chi aveva interesse ad eliminarla dalla scena investigativa? Quali erano le azioni investigative che portava avanti in quel periodo?
Ero in servizio al Sisde e stavamo raccogliendo elementi che ritenevamo di estrema importanza per il ritrovamento del boss Bernardo Provenzano, rimasto tuttora superlatitante. Eravamo convinti di essere a un passo dalla sua cattura.
Secondo alcune ricostruzioni seguite alla sua assoluzione in appello, il vero movente della sua cattura e delle accuse lanciate contro di lei sarebbe stato lo scontro fra i Servizi e la Dia, artefici delle due diverse azioni di contrasto alla mafia, quella tradizionale e quella basata sull’uso dei pentiti, in qualche modo rivali.
Avevano deciso anche il momento giusto per catturarmi: la vigilia di Natale. Un motivo in più per accrescere l’annientamento anche sul piano psicologico. Si sono basati su teoremi assurdi, come la convergenza del molteplice o il principio per cui non possono essere considerate false le cose che i pentiti si dicono fra loro. Sa come erano basate alcune accuse contro di me? Un pentito dice che mi ha incontrato ad un ristorante insieme a un mafioso. E qual è la prova? Il fatto che lo stesso pentito ricordi il nome del locale o la tappezzeria interna. Seguendo principi altrettanto balordi hanno comminato condanne ad uomini di mafia che magari meritavano anche l’ergastolo, ma in relazione ad altri fatti: chi faceva parte della Commissione quando fu commesso quel tale omicidio? Tizio, Caio e Sempronio. I quali, secondo questo teorema, non potevano non sapere. Ma non era così, questo è sbagliato e ha scatenato altre guerre, come quelle a colpi di falsi pentiti. Io, comunque, non ce l’ho con loro. Ma con chi li ha manipolati.
In suo favore testimoniarono oltre cento persone, fra cui personalità di spicco. Che fine fecero le loro deposizioni nella sentenza di condanna in primo grado?
La parola di prefetti, generali, colonnelli ed alte cariche dello stato non furono tenute in considerazione. Valsero più le presunte “rivelazioni” dei pentiti Spatola, Siino, Buscetta, Cangemi, altrettanti criminali che avevo perseguito duramente durante tutta la mia carriera in Polizia e poi nel Sisde. La loro voce contò più di quella di Arturo Parisi, l’ex capo della Polizia al cui funerale andò personalmente lo stesso Gian Carlo Caselli quando era procuratore capo a Palermo. Un uomo che, per tutto quel periodo, se ne stette arroccato nel suo bunker. E invece per contrastare davvero la mafia devi conoscere palmo a palmo il territorio, viverne l’aria, le azioni, i simboli per anni. Entri in un bar, loro sanno tu chi sei e tu sai chi sono loro. Basta un’occhiata per fiutare cosa succederà in quella zona.
Ora è finita. Cosa farà?
Intanto aspettiamo le motivazioni della sentenza d’appello, che dovrebbero essere pubblicate ai primi di agosto ma, per la pausa estiva, potrebbero slittare a settembre. E poi sto pensando di ritirarmi con mia moglie nella piccola casa che abbiamo a Terrasini, con un fazzoletto di terra, lontano dalla città. Sono stanco, ma non piegato. Quando i giudici di appello hanno pronunciato la sentenza di assoluzione, al mio avvocato Pietro Milio che è scoppiato in lacrime ho detto: “Guarda che l’imputato, qui, ero io…”.
IL PDF COMPLETO DELL’INCHIESTA 2001
INCHIESTA CONTRADA VOCE LUGLIO 2001
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Un commento su “BRUNO CONTRADA E LA REPUBBLICA DEI PENTITI”
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Sostenere che Falcone e Borsellino abbiano “truccato le regole del gioco”,nella lotta alla mafia fa capire tanta cose. In base alle sentenze Contrada e`innocente,ma come poliziotto restera`sempre un “moderato”nel contrasto a” cosa nostra”.
Guarda caso i moderati sono tutti vivi o morti nel loro letto e i faziosi quelli che truccavano le carte sono morti di morte violenta.