Bisognerà, ovviamente, aspettare per dare un giudizio sul neo eletto presidente francese Emmanuel Macron. Per ora sappiamo tanto gossip sulla moglie; viene annoverato tra gli europeisti, anzi la sua vittoria ha ridato coraggio a chi cominciava a convincersi che difendere l’Europa facesse perdere le elezioni e si apprestava a nascondere in fretta persino i simboli europei. Sappiamo anche che è l’ennesimo leader politico che dice di non essere né di destra né di sinistra. Perciò non si capisce tutto l’entusiasmo suscitato, soprattutto a sinistra, dalla vittoria del giovanissimo presidente francese. Macron sembra essere solo il meno peggio. Un copione già visto, non solo in Francia, che vede il menopeggio, contro l’estremismo di destra. Non c’è molto da gioire se il menopeggio vince, e non c’è molto da godere per essersi accontentati di questo. Anche perché l’estrema destra ha ottenuto, comunque, tantissimi voti; e nelle periferie francesi restano i problemi legati al disagio e all’estremismo religioso, che hanno prodotto la mala pianta del terrorismo.
Un articolo del New York Times ha descritto Macron come “il candidato che ha abbracciato orgogliosamente un’Unione europea impopolare”. Nel giugno 2015 Macron ha pubblicato una piattaforma che promuove riforme strutturali, riforme istituzionali, ma anche una riconciliazione tra i sistemi fiscali e sociali. Durante la campagna elettorale ha detto: “Non si può avere un’Unione europea che affronti ogni singola cifra decimale sulla questione dei bilanci con ciascun Paese e che quando si dispone di un membro dell’UE che agisce di propria iniziativa su questioni legate ai propri singoli confini, alla gestione dei rifugiati, ai valori fondamentali, decide di non fare nulla”.
Nei prossimi mesi converrà a tutti tenere d’occhio l’europeismo di Macron, e visto che non ci è dato prevedere il futuro, forse sarà interessante ripartire dal passato, quello remoto, quello dei miti, la cui forza sta proprio nella loro inafferrabilità, nella capacità di assumere tutte le forme. Il mito racconta che Europa fu una principessa, figlia di Agenore, re della terra di Canaan, rapita un giorno sulla riva del mare da un toro di straordinaria bellezza. Quel toro che era Zeus, il padre degli dei, inguaribile sciupafemmine e specialista in trasformazioni, la portò aggrappata alle sue corna fino a Creta. L’ipotesi più suggestiva sull’etimologia del nome lo riconduce al semitico Ereb, occidente, che si riferirebbe al passaggio della civiltà da oriente ad occidente. Insomma l’Europa ha mosso i suoi primi passi in Grecia. E proprio la terra degli elleni ci ha regalato le parole più belle del nostro vocabolario: politica, democrazia, fantasia, ipotesi, filosofia, carattere, macchina, teatro, eresia, critica, filantropia solo per citarne alcune; parole senza le quali saremmo sicuramente molto più poveri. Che proprio la Grecia, patria dell’isonomia, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e dell’utopia democratica, sia stata la prima vittima dell’altra Europa, quella della finanza, delle banche, dei mercati e del capitale, non è forse un caso. Il suo “fallimento” ha assunto un valore simbolico fortissimo: umiliare la Grecia, piegarla alla logica di un presente tetro incapace di ipotizzare altro al di fuori di sé, ha significato scegliere il peggio. Sconfitta, la Grecia è stata anche umiliata, secondo un’antica consuetudine mirabilmente riassunta nella celebre frase attribuita a Brenno, capo dei Galli Sènoni che nel 390 a.C. invasero Roma. “Guai ai vinti”, pare abbia detto in quell’occasione l’”antenato” di Macron, di fronte alle rimostranze dei cittadini romani che si erano accorti che i pesi della bilancia sulla quale si stava pesando l’oro del riscatto erano truccati. La spada che Brenno sguaina e pone sul piatto della bilancia con l’arroganza del vincitore, è la stessa che l’asse franco-tedesco ha puntato, negli ultimi anni, alla gola non solo della Grecia. Se parlassimo ancora greco diremmo che si tratta di una politica ipocrita (dal greco Ypocritès: attore, teatrante) e forse avremmo tutti un moto di ribellione. Ma ci siamo lentamente abituati ad un’altra lingua che chiama default il fallimento, e che ci stordisce con la forza di termini come Spread, Bid, Btp future, Broker, Cash & carry, Commodity. Uno strano lascito di un Paese che ha scelto di uscire dall’Unione, una neo-lingua così tecnica da risultare quasi incomprensibile, e di fronte alla quale arretriamo come se fossimo dinanzi ad una rivelazione di cui è depositaria una cerchia ristretta di nuovi sacerdoti. È triste riconoscere sempre meno la lingua che parliamo e le radici da cui discendiamo!
Non potendo prevedere il futuro, non ci resta che sperare. Speriamo che Macron contribuisca a cambiare un’Unione europea che, come avvenuto per la Grecia, è sempre più matrigna; un’Unione che dimostri a tutti che puntare sulle persone, sul desiderio di riscatto che è in ognuno di noi, è più giusto che puntare sul guadagno fine a se stesso. Nei suoi primi discorsi da presidente, Macron si è impegnato a contrastare “le ingiuste e scandalose diseguaglianze”. Sarebbe una grande novità se uno scelto come il menopeggio si dimostri capace di trasformare l’Unione europea a partire da una maggiore “uguaglianza” tra i cittadini, da una sincera “fraternità” tra i popoli europei, da una vera “libertà” da proporre al mondo, che sembra sempre più bisognoso di un nuovo illuminismo, di una concreta e pacifica rivoluzione.
Scopri di più da La voce Delle Voci
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.